Nata oggi. Virginia Woolf e la sua vita nel taglio di gioia e di angoscia

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Londra, 25 gennaio 1882, nasce Virginia Stephen conosciuta al mondo come Woolf, fra le protagoniste della letteratura del XX secolo. Abile esploratrice dei meandri della coscienza, in particolare di quella femminile. É stata anche una figura influente nell’attivismo femminile del suo tempo. La sua partecipazione al movimento per i diritti delle donne e i suoi saggi, veri e propri colloqui, leggeri e veloci come voleva, con i lettori, a metà fra racconto critico e racconto biografico, hanno contribuito a gettare le basi per una maggiore consapevolezza e uguaglianza di genere. Sul piano narrativo, l’uso del flusso di coscienza, la struttura temporale non lineare e la focalizzazione multipla hanno saputo ridefinire il modo di raccontare e di comprendere le storie. Nei suoi romanzi, i personaggi si muovono in un tempo individuale e singolare all’interno del tempo della Storia in frammenti che si uniscono ad altri come in un mosaico perché, come ha scritto in Orlando: «La vita – ne convengono tutti coloro la cui opinione è di un certo valore in materia – è l’unico tema adatto per un romanziere o un biografo.» Fiume Ouse, 28 marzo 1941, Virginia Woolf muore suicida lasciandosi annegare dopo essersi riempita le tasche di pietre e aver lasciato una lettera al marito, l’editore e scrittore Leonard Woolf.
«Carissimo, sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E stavolta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone avrebbero potuto essere più felici fino a quando è arrivata questa terribile malattia. Non posso più combattere. So che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti. E lo farai lo so. Vedi non riesco neanche a scrivere questa mia come si deve. Non riesco a leggere. Quello che voglio dirti è che devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato completamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dirlo – tutti lo sanno. Se qualcuno avesse potuto salvarmi saresti stato tu. Tutto se n’è andato da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone avrebbero potuto essere felici più di quanto lo siamo stati noi.»
“Sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare”. Togliersi la vita, questa la scelta finale, un gesto da sempre considerato estremo, reato, peccato, scandalo.  In particolare, Sartre ritiene il suicidio come un atto di libertà, essendo l’individuo responsabile delle sue scelte, ma al contempo rappresenta un atto estremo di fuga dalla responsabilità. Secondo Heidegger, il suicidio sarebbe la risposta disperata all’angoscia esistenziale, un atto perciò che riflette la fuga dalla responsabilità di essere autentici e di abbracciare la totalità della nostra esistenza temporale. Spesso è proprio il suicidio a rendere ancora più immortali figure come Virginia Woolf e altre sue contemporanee poetesse e artiste che vollero troncare con violenza il filo della loro esistenza nel lungo secolo delle catastrofi mondiali, circondandole per sempre di un’aurea perturbante. Virginia Woolf soffriva di crisi di ansia e profonde depressioni, crolli e ricadute in stati di instabilità emotiva, le cui prime avvisaglie risalgono alla morte improvvisa della madre, cui seguirono la perdita prima di una sorella e poi del padre, nonché l’abuso da parte di due fratellastri.   Nel libro “La mia vita con Virginia”, relativamente agli ultimi giorni della vita della scrittrice, nei quali era caduta nel baratro di una “buia depressione”, Leonard Woolf scriveva: «Sapevamo che in qualsiasi momento poteva tentare di uccidersi. L’unica sua possibilità era di arrendersi, di riconoscersi malata, il che non voleva.» Virginia Woolf, dunque, lottò prima di arrendersi e di dirsi certa di stare impazzendo. Non era riuscita a sopportare l’enorme peso che da sempre la faceva vacillare, quello stesso peso che scelse per farsi trascinare dalle acque. Negli ultimi giorni della sua vita era demoralizzata e impaurita per la devastazione bellica, percepiva l’orrore esterno attraverso la confusione interiore, sognava forse una vita più autentica per l’umanità, una vita piena di pace per se stessa. Nella sua visione così ampia e universale delle cose del mondo, James Hillman offre una analisi sul tema del suicidio a dir poco sovversiva, ribaltando completamente l’idea dei concetti vita-morte. Nel suo saggio Il suicidio e l’anima, pubblicato per la prima volta nel 1964, egli afferma che: «Il suicidio è il tentativo di passare violentemente da una sfera all’altra, attraverso la morte. L’angoscia che precede il suicidio rappresenta la lotta dell’anima con il paradosso di vari opposti.» Lo psicoanalista americano non cerca di spiegare la motivazione del gesto, cosa che naturalmente siamo tutti portati a fare, domandandoci, inoltre, perché nessuno ha saputo tendere una mano sull’orlo dell’abisso. E infine, dopo tante indagini, il gesto estremo resta un mistero. Restiamo su quest’ultima parola, mistero, di derivazione greca, Mysterion, che ancora prima di designare qualcosa di inspiegabile, indicava la celebrazione di riti di iniziazione, così come la morte intesa come passaggio, l’uscita da uno stato per entrare in un altro. Ha scritto Edgar Allan Poe: «Ciò che noi chiamiamo morte non è che la dolorosa metamorfosi.» Ed è proprio sull’esperienza della morte che si sofferma James Hillman. Oggi siamo sempre più spaventati dall’idea di morte e di tutto ciò che essa rappresenta, ovvero fine, malattia, deperimento. Cerchiamo di evitarla, allungando, il più possibile, il tempo della vita. E così facciamo con le circostanze che ci arrecano dolore: cerchiamo di allontanarle, di non affrontarle, ma nel frattempo un grido di angoscia risale dal nostro Io più profondo e, per usare le parole di Virginia Woolf ci “taglia in due il cuore.” Non vogliamo incontrare la morte, ma sentiamo i suoi artigli dilaniarci, perché in realtà siamo già spenti dentro. Non vogliamo guardarci dentro, analizzarci, o non troviamo la guida che ci affianca nel buio mentre attraversiamo il dolore, quando cioè siamo morti dentro. E allora, tornando al saggio di Hillman, la morte assume un significato diverso, una spinta a voler vivere: «l’impulso di morte non va necessariamente concepito come una mossa contro la vita; potrebbe esprimere il bisogno imperioso di incontrare la realtà assoluta, la richiesta impellente di una vita più piena attraverso l’esperienza della morte.» Nei Diari, esempio della più alta fusione tra vita e letteratura, Virginia Woolf dichiara: «Questo insaziabile desiderio di scrivere qualcosa prima di morire, questo senso divorante della febbrile fugacità della vita, che mi fa avvinghiare, come un uomo a una roccia, alla mia sola ancora.» L’appiglio della parola, della traccia di sé in una breve esistenza, la gratitudine a chi ha saputo sempre supportarla, la trascinava paradossalmente verso il fiume. Ogni pietra raccolta e infilata nelle tasche le appesantiva il passo fino a sprofondare, a non sentire più aria nei polmoni. La scrittrice ha scelto. Non ci è dato sapere, né spiegare perché, solo immaginare.

«Finché non abbiamo detto di no alla vita, non le abbiamo detto davvero di sì.»

(James Hillman)

       

Passerà anche questo Natale

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É passato anche questo Natale. […] giorno dunque di festa, ma, come ogni data singolarmente importante o solenne, giorno di rimpianto per quelli passati. Sentimento strano, ingiusto in me, che sono ancora quasi bambina, che dovrei guardare solo all’ avvenire, fiduciosa, serena! […] Ho paura, e non so di che: non di quello che mi viene incontro, no, perché in quello spero e confido. Del tempo ho paura, del tempo che fugge così in fretta. Fugge? No, non fugge, e nemmeno vola: scivola, dilegua, scompare, come la rena che dal pugno chiuso filtra giù attraverso le dita, e non lascia sul palmo che un senso spiacevole di vuoto. Ma, come della rena restano, nelle rughe della pelle, dei granellini sparsi, così anche del tempo che passa resta a noi la traccia.”  (Diari, Antonia Pozzi, 1926)
Diari, Antonia Pozzi
Antonia Pozzi, foto dal sito www.antoniapozzi.it
É il 1926, Antonia Pozzi è una dodicenne che ha iniziato a frequentare il ginnasio, dopo aver avviato la sua carriera scolastica privatamente. Riempie le pagine dei suoi diari con pensieri dai quali emergono una spiccata sensibilità all’introspezione e un incessante interrogarsi sulla vita. Lo testimonia il passaggio sopra citato, dove la giovanissima Antonia riflette sul suo “strano” e “ingiusto” pensare al rimpianto in occasione dei giorni di festa.   Sono i giorni di festa momenti di sospensione interiore, in cui il tempo si ferma, si dilata e ci costringe a pensare. Oppure un palpito prolungato riecheggia in petto fino a serrare il respiro. Qualcosa succede, nei nostri Natali, che ci porta a riflettere. In questi giorni di fine anno molti pensieri ci opprimono. Le notizie di cronaca più recente non possono lasciarci indifferenti. La ferocia delle violenze perpetrate verso le donne e gli animali comprovano una umana imperturbabilità, una vera eclissi del cuore che spiazza e che gela. A Natale si celebra una nascita, un venire alla luce, uscire dalle tenebre. È allora un giorno di confine, nel quale puntiamo i nostri passi verso un nuovo orizzonte, in un cammino circolare che ci riporterà a nuovi varchi. Perché il Natale è un fiotto di luce, la candela accesa nell’attesa che qualcosa arrivi. E a volte quel che arriva può anche farci male. Il circolo di Pickwick di Charles Dickens“E veramente numerosi sono i cuori ai quali il Natale arreca un breve periodo di gioia e di felicità. Quante famiglie, i cui componenti si sono dispersi qua e là lontano, nell’irrequieta lotta per la vita, si trovan riuniti di nuovo e s’incontrano di nuovo a Natale in quella felice compagnia e reciproca buona volontà, che è una così larga fonte di gioia pura e sincera, e così lontana dalle ansie e dalle tristezze del mondo, da essere annoverata, nella credenza religiosa delle nazioni più civili e insieme nelle rudi tradizioni dei più rudi selvaggi, fra le prime gioie della vita futura, largite ai beati e ai felici. Quante vecchie memorie e quante simpatie sopite ridesta il tempo di Natale!” (Il circolo Pickwick – Charles Dickens) Nella stessa pagina sucitata, tratta dai Diari del 1926, l’adolescente Antonia Pozzi riflette: “forse per questa piena di sentimenti, per cui in una giornata soffro e godo ciò che apparentemente si può soffrire e godere in tutta un’esistenza, che rimpiango il passato, che adoro il presente, che non desidero l’avvenire; perché sono contenta di essere io, con i miei difetti e con le mie poche virtù, perché non so se in avvenire potrò ancora essere così.” Così, anche questo Natale passerà, e saremo noi a poter annunciare dove la cometa ci ha condotti col suo lampo di luce.  

Mi libro in volo Alda Merini“A tutti voi auguro un Natale con pochi regali ma con tutti gli ideali realizzati.”

(Buon Natale, Alda Merini)

“Il labirinto di ghiaccio” di Valerio Varesi chiude l’AperiLibro di Voghera

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C’è stato un tempo in cui il mito del primitivo esaltava la penna degli scrittori e li portava ad auspicare il ritorno a quell’età dell’oro dove la vicinanza dell’uomo alla natura celebrava la nostalgia per l’autenticità dell’individuo. Cosa ne è oggi di quel mito, alla luce dei concetti di alienazione sociale? Può, oggi, un uomo isolarsi da tutto e da tutti, e riuscire a ritrovare veramente se stesso? Magari cancellando ogni traccia di sé, circondato da enormi e accecanti distese di ghiaccio?

“Ho voglia di lottare e conquistare palmo a palmo questa roccia fino a farne un mondo esclusivo in cui riconoscermi. Forse solo allora, ricondotto alla spontaneità di un bimbo che impara, mi spoglierò di tutto e mi calerò come uno speleologo dentro me stesso.”

Il labirinto di ghiaccio di Valerio Varesi- Mondadori
Valerio Varesi presso la Sala Artigiani di Voghera presenta “Il labirinto di ghiaccio” – Edizioni Mondadori.
Al centro dell’ultimo romanzo di Valerio Varesi c’è proprio un uomo in fuga dalla civiltà, che sceglie di percorrere, per nascondersi, l’impervio e ostile sentiero del ghiacciaio di frontiera, finendo per creare un vero e perturbante confine fra sé e gli altri. Ne ha parlato lo stesso autore di origini parmense presso la Sala Artigiani di Voghera, dialogando con la scrittrice e critica letteraria Patrizia Debicke.   Ci vuole coraggio, ai giorni nostri, a scrivere una storia in cui sfuggire “facilmente alla propria parte nel mondo.” Siamo segnati, in fondo, in questa società, e rintracciabili. Ma forse dovremmo chiederci quali tracce lasciamo dietro di noi se ci allontaniamo dalla società. Davvero saremmo così ricercati e indimenticabili? Con uno stile introspettivo e una acuta analisi psicologica, l’eclettico e ormai popolare in Francia giornalista e scrittore di gialli, noto per aver creato il Commissario Soneri nella numerosa serie di libri, poi trasporta in tv, con il suo “Labirinto di ghiaccio” dà vita a un’opera di potente riflessione sociale.
Il labirinto di ghiaccio di Valerio Varesi- Mondadori
A sinistra, Elisabetta Balduzzi, libraia e editrice della Libreria Ticinum di Voghera, ideatrice della rassegna letteraria l’AperiLibro del sabato.
Circondato dal ghiaccio, l’uomo in fuga deve imparare a sopravvivere, costruendosi una baracca, conservando le sue prede, elaborando un suo piano di lavoro giornaliero. É facile pensare all’eco di Defoe o di Ruosseau, ma il romanzo di Valeri è difficile da classificare, forse proprio perché il tema del primitivo contemporaneo non può più circondarsi di un’aurea mitica. L’individuo contemporaneo non può sfuggire al progresso, alla tecnologia. Persino il silenzio gli risulta insopportabile, il buio, il dover pensare alla fine della vita. Perché, in fondo, non può sfuggire al vero nemico che porta sempre con, dietro e dentro di sé, ovvero se stesso:

“Non ho rinunciato al mondo. Ho voluto prenderne distanza e adesso mi limito ad ascoltarlo con la radio che ho portato quassù. Lo scopro di volta in volta più insensato e futile. (…) Eppure, certe volte, potrei apparire io un fanciullo che gioca. Assomiglio a un matto che s’è voluto cavare la voglia di un’esperienza estrema. Poi, però, la fatica, la sofferenza e l’ostilità di questo mondo, mi riagganciano a convinzione solide come le rocce. So di avere quello che manca ai miei simili: una sfida primitiva nella quale decifrare con spietatezza se stessi.”

 
Il labirinto di ghiaccio di Valerio Varesi- Mondadori
Valerio Varesi a Voghera incontra i suoi lettori.
Inoltrarsi nel labirinto che crea Valeri in questa nuova storia significa spogliarsi di se stessi per ricostruire un individuo nuovo, che esce dalle sue epoche storiche e si immerge in un presente che è e sempre sarà.  

Giovanni Tesio a Voghera per parlare de “I libri degli altri”, lettere selezionate di Italo Calvino editore.

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“Il massimo del tempo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei.”

  Italo Calvino, l’autore che non amava le etichette Comincia dopo la Liberazione l’impegno di Italo Calvino come redattore presso la casa editrice Einaudi. È il periodo, come racconta l’autore stesso, in cui dedica più tempo ai libri degli altri che ai suoi. Ed è proprio partendo da questa sua confessione, che il filologo e critico letterario, studioso della lingua italiana Giovanni Tesio, prende in prestito la frase “I libri degli altri” per comporre il volume di lettere, ricevute e inviate fra il 1947 e il 1981 da Calvino, uscito già per Einaudi negli anni ‘90  e oggi ripubblicato nella collana Oscar Mondadori in occasione del centesimo anno della nascita dell’autore di origini liguri. I libri degli altri di Giovanni Tesio - Oscar Mondadori 2023“I libri degli altri” Il testo comprende oltre trecento missive, tra le cinquemila conservate dall’archivio Einaudi, selezionate da Tesio. Calvino si occupava dell’ufficio stampa Einaudi e delle schede editoriali di scrittori, fra i quali compaiono Elio Vittorini, Lalla Romano, Domenico Rea, Angelo Ponsi, Giovanni Arpino, Carlo Cassola, per citarne alcuni. Una preziosa testimonianza per rivivere un momento straordinario della letteratura italiana, per comprendere gli aspetti socio-politici da una prospettiva pienamente culturale.

Agli autori che si affacciavano alla realtà editoriale, Italo Calvino non risparmiava critiche, con risposte ironiche e maliziose, o consigli pungenti per sottolineare l’importanza di una prosa pulita e levigata.

Italo Calvino, definito da Cesare Pavese “lo scoiattolo della penna” per la sua abilità di saltare di ramo in ramo, la versatilità stilistica e l’audacia sperimentale, non tralasciò mai le tracce del suo impegno politico. Nel dopoguerra collaborò con l’ “Unità” e diresse fino al 1959 il “Notiziario”.
Giovanni Tesio durante la presentazione de “I libri degli altri” – Edizioni Mondadori ,presso la Sala Artigiani di Voghera, incontro coordinato dall’autore parmense Guido Conti, con lui nella foto.
In veste di editore, Calvino emerge come un lavoratore scrupoloso e attento, che si impegna a consegnare ai lettori un prodotto finito, dal quale essi possano, esercitando il pensiero, trarre un messaggio. Calvino fu, dunque, un arguto indagatore del suo tempo, non tralasciò mai la tensione morale dalle quali nascevano le storie su cui lavorava e di cui scriveva. Fiabe italiane di Italo Calvino - MondadoriCalvino e il fiabesco Nella seconda metà degli anni ’50 a Calvino spetta il compito di dirigere i lavori della pubblicazione delle Fiabe italiane, commissionate direttamente da Giulio Einaudi. Un lavoro rigoroso, di immane ricerca e traduzione dal dialetto delle varie regioni, ma anche divertente per lo stesso autore, che definisce le fiabe “come una metafora stessa del lavoro letterario.” Del resto all’autore, a partire dalla sua trilogia degli Antenati, venne affibbiata la definizione di autore fiabesco. A lui verranno assegnate le schede di testi che rientrano nella categoria della favola e della fantascienza. Lezioni americane di Italo Calvino - MondadoriCalvino critico militante Da Torino a Parigi, passando per Roma, Calvino viaggiò a lungo e allargò i confini letterari, continuando a sperimentare generi e stili nuovi, allontanandosi da un primo periodo “impegnato” e, indagando e scrivendo dei libri degli altri, andava a indagare la sua di poetica, dandoci così l’essenziale lezione della funzione esistenziale della letteratura.

“C’è ancora domani” fra voci e volti di donne. Impressioni a caldo sul nuovo film di Paola Cortellesi

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Sguardi di donne. Di madri, figlie, vicine di casa. Occhi lucidi ma pieni di dignità. Perché in quello sguardo c’è sempre speranza, quella che guida le donne durante le tempeste affrontate nella Storia. E l’eco dei loro sogni, desideri e ambizioni si sente nell’incantevole film “C’è ancora domani” che vede per la prima volta Paola Cortellesi alla regia.
In-canta la storia narrata, sussurra le voci delle nostre antenate più recenti, delle protagoniste che popolano i romanzi del Novecento delle autrici per molti decenni dimenticate e che oggi tornano prepotentemente a ripopolare gli scaffali delle librerie. Donne dalle voci discrete ma potenti, perché arrivano fino a noi, oggi. Oggi che la coscienza risvegliata in quelle pagine bussa con urgenza alla porta di creature considerate solamente corpi da fare a pezzi.
E allora ci si chiede, davanti alle scene che passano in un bianco e nero che riflette luci e ombre di un passato che non ci ha mai lasciati, cosa è cambiato da allora? Nell’immediato secondo dopoguerra, quando nella capitale stazionano camionette americane e la popolazione stenta a risollevarsi, ci sono donne che, oltre ad adempiere al ruolo di massaie, si ingegnano in piccoli lavoretti per incrementare il bilancio familiare. Delia è una di loro, una donna di casa additata da marito e suocero come una dal “difetto che risponde troppo”, che subisce ma non crolla perché sta lavorando per un domani nuovo, un domani che può sorgere solo grazie al coraggio di scelte difficili. E quelle decisioni germogliano silenziose, nella r-esistenza interiore.
In Delia si fanno corpo le parole “segrete” scritte con timore nei diari di donne come Valeria Cossati, che nasconde il suo quaderno proibito ai familiari «Michele l’altra sera mi ha sorpreso alzata a tarda ora e ha sospettato forse che scrivessi ad un uomo. Non immaginerebbe mai che ho un diario: gli è più facile credere che io ubbidisca a un sentimento colpevole, piuttosto che riconoscermi capace di pensare»; Jeanne Bornand che nelle sue pagine confessa: “Ma se la nostra lingua è paralizzata, si crea tuttavia tutto un movimento in noi che si esprime in modo alternativo alle parole. È il nostro passo che si fa strascicato, la nostra voce di colpo più tagliente, i nostri sguardi più severi. Sono le porte che sbattiamo. E questa volontà che si solidifica e che ci spinge a contraddirlo sempre, o ci immerge in un mutismo pieno di sottintesi, di rimproveri latenti, non formulati, che di conseguenza proliferano come vegetazione sottomarina, come il muschio nei boschi”, Rina Faccio che dichiara “Accettando l’unione con un essere che m’aveva oppressa e gettata a terra, piccola e senza difesa, avevo creduto di ubbidire alla natura, al mio destino di donna che m’imponesse di riconoscere la mia impotenza a camminar sola.”  O Monique, donna spezzata che, rosa dal tormento per l’infedeltà di suo marito, si trova “disarmata, poiché non avevo mai pensato di avere dei diritti.”, che viene descritta così apertamente dalla figlia minore: “Manchi di difesa, è il tuo solo difetto”. O, ancora, come la figlia (Annie Ernaux), che racconta, nel libro a lei dedicato, di sua madre che non c’è più: “Mi vergognavo della sua maniera brusca di parlare e di comportarsi, tanto più quanto mi accorgevo di somigliarle. Le rimproveravo di essere ciò che io, in procinto di emigrare in un ambiente diverso, cercavo di non sembrare più.”
Ed è proprio dalla frattura generazionale che si apre la possibilità di ascoltare le voci che parlano di un futuro nuovo.
C’è ancora domani per sperare di cambiare una Storia che si reitera, ma è nell’oggi che dobbiamo scegliere come cambiare.
Delia lo fa ascoltando le voci fuori e dentro di sé, calcando la scena della sua vita come in una sequenza di quadri viventi nei quali incarna una massaia che nasce e muore, ma che sa, soprattutto, rinascere dalle ceneri di un passato che non torna più.
   

La morte delle sirene di Ben Pastor

“La morte delle Sirene”, Edizioni Mondadori 2023, ultimo libro della scrittrice italiana naturalizzata statunitense Ben Pastor, è uno di quei libri che ti lascia senza fiato, di quelli che farebbe desiderare al giovane Caulfield di telefonare all’autore ogni volta che gli gira. Ebbene, sabato 21 ho avuto il grande piacere di sedere accanto a Ben Pastor e di dialogare con lei sul suo recente romanzo storico, il sesto volume dedicato al soldato danubiano Elio Sparziano, pseudonimo di uno degli autori dell’Historia Agusta, in particolare della vita dell’imperatore Adriano, nonché fonte preziosa per Marguerite Yourcenar nella redazione del suo più grande capolavoro, “Memorie di Adriano”. Organizzato dalla Libreria Ticinum di Voghera per la rassegna letteraria AperiLibro del sabato, l’incontro si è svolto presso la Sala Artigiani di Via Bidone a Voghera. La scrittrice, laureata in Lettere a indirizzo archeologico a Roma e successivamente docente di Scienze Sociali presso numerose Università degli Stati Uniti, ha incantato il pubblico con sguardo arguto di sirena attraverso la narrazione della Storia di Roma ai tempi della seconda Tetrarchia (306-324 d. C.), soffermandosi sulle implicazioni morali e culturali di un critico momento di passaggio. Il crollo dei valori sovvertì gli equilibri politici che, sempre più a stento l’epoca augustea aveva cercato di mantenere. https://www.antoniodellabianca.it/Al termine della presentazione, un godereccio momento con il brindisi dei vini dell’Azienda Agricola Antonio Dellabianca di Pietra de’ Giorgi (Pv). “La morte delle sirene” di Ben Pastor, fra storia e mito Il libro, frutto come sempre di una infaticabile e appassionata ricerca storica, arriva al lettore con una serie di immagini dalla potenza creativa, sia per le descrizioni dei luoghi che diventano vere e proprie presenze palpitanti più che semplici cornici descrittive, sia per i numerosi riferimenti alla mitologia classica. Ed è proprio attraverso il mito che “La morte delle Sirene” può essere al meglio argomentato, così come si è cercato di fare sabato mattina.
“E queste cose non avvennero mai, ma sono sempre: l’intelligenza le vede tutte assieme in un istante, la parola le percorre e le espone in successione.”
 
Partiamo dal mito di Roma, la più grande potenza espansionistica, sfolgorante civiltà del mondo antico che ha affascinato, nei secoli, grandi condottieri e politici, ispirandone l’ideologia. Un mito fatto di grandezza,  eroismo e sacralità. Una magnificenza che declina nell’epoca della seconda tetrarchia, durante la quale si accentuano dissidi dinastici che sfociano in inaudite violenze. É questo il momento che sceglie di raccontare Ben Pastor attraverso il personaggio di Elio Sparziano, integerrimo castrense, che difende strenuamente i valori imperiali, ligio come è alle regole e, soprattutto, all’onore. Di origini danubiane, giunge a Sorrentum nel 306 in attesa di essere ricevuto, a Roma, dall’Augusto junior d’Occidente Massenzio, al quale dovrà consegnare un plico ricevuto dall’Augusto d’Oriente Galerio. In questo frangente di tempo, si dedica alla sua attività di ricerche storiche e di guida ai bordelli di lusso, godendo dei piaceri che la città offre.

“Roma sarebbe stata per Elio Sparziano ciò che dava un senso alla sua vita.”

La morte delle sirene di Ben Pastor, Mondadori 2023
Ben Pastor, autrice de “La morte delle sirene” Mondadori, 2023.
Agli eventi narrati, Ben Pastor sceglie di alternare pagine di appunti di Sparziano, stratagemma che ci consente di cogliere l’evoluzione interiore del protagonista. Durante le sue passeggiate tra i vicoli di Sorrentum, nei pertugi rocciosi che si affacciano sul mare, il militare avvertirà dei sussurri ammalianti, quello delle mostruose creature marine che attiravano i marinai fino a far schiantare le navi sugli scogli. É un richiamo nuovo per lo stoico Sparziano, abituato a osservare la realtà con estrema razionalità. Si affaccia, dunque, nel mare del suo inconscio, Melusina, che in alchimia simboleggia l’anima. Luoghi e personaggi sulla strada di Sparziano si presenteranno come vere e proprie epifanie che faranno incrinare la sua consueta ragionevolezza. “Mentre saliva al passo verso le villette a mezza costa, oltre le quali sorgeva quella che aveva preso in affitto, girandosi indietro fece caso a come, laggiù, il vulcano decapitato dalla grande eruzione somigliasse a un sonnolento ma pericoloso bue di pietra. Eppure ovunque nel golfo si ergevano terrazze sul mare, casette arroccate sulle cime, e, nella fertile pianura, dimore di campagna e fattorie. Impossibile non considerare come, in una stagione mite non dissimile da questa, la stessa pace ambigua avesse regnato su Stabiae, Herculaneum, Pompeii fino alla vigilia del disastro. Lui stesso lo aveva sperimentato in Armenia un anno prima: boati e tremori, scosse e piccoli crolli d’avvertimento non riuscivano a scuotere gli abitanti delle regioni vulcaniche dalla loro inerte abitudine al pericolo. “Ma purtroppo è così anche la grande struttura dell’Impero” si disse governando attento il cavallo. “È così e non se ne accorge nessuno. Si percepiscono scricchiolii, tonfi sordi. Alcuni cedimenti improvvisi possono anche impensierire, ma, dato che non si trasformano subito in qualcosa di grave, il loro ripetersi diviene parte dell’assuefazione.” Rischi, minacce… Da lassù, nel mare che incupiva all’orizzonte, solo gli orli di schiuma e il diverso colore dell’acqua tradivano la presenza di scogli nascosti; proprio ciò su cui contavano le sirene per fare schiantare le navi. Forse, dopo il richiamo fatale, divoravano i resti dei marinai, o li dilaniavano mentre, ancora in vita, si dibattevano tra i flutti presso il relitto.” Cosa accade, dunque, a Sparziano durante il suo soggiorno nella città per antonomasia considerata la casa delle sirene? Queste creature, ben lontane dall’immaginario collettivo novecentesco dalla coda di pesce e lo sguardo ammaliatore, hanno ali da uccello e spaventano i naviganti che, sensibili al loro canto, vengono scagliati con la loro nave contro gli scogli. L’unico a resistere al loro potere di perdizione fu, nell’antichità, Odisseo, eroe astuto ma anche dotato di grande logica e razionalità.
Sala degli Artigiani, Voghera. Da sinistra: la libraia di Libreria Ticinum Elisabetta Balduzzi, la moderatrice Domizia Moramarco e l’autrice Ben Pastor.
Il soldato che crea Ben Pastor con la sua penna è invece l’eroe marziano che subisce una trasformazione interiore di fronte alle manifestazioni delle sirene, rappresenta dunque una versione più acquatica del dio Marte, guerriero e impulsivo, un dio che, fattosi pesce per sfuggire all’inseguimento del gigante Tifone, fugge nelle acque profonde del mare per tramutarsi in pesce. “A Elio venne in mente Nepote, il bizzarro capitano della velocissima Bellatrix, che inseguiva da anni la sua personale creatura marina fino in capo al mondo, senza bisogno di sentirne il richiamo. Il richiamo era già in lui, sotto forma di desiderio. E forse era stato proprio questo, più che l’uso della cera con cui i suoi compagni si erano tappati le orecchie, il segreto del successo di Odisseo nei confronti delle tentatrici. In lui non c’era desiderio di essere sedotto da loro. Voleva tornare a casa – la grande molla del veterano, – non ascoltare le seduzioni delle donne-uccello. Per questo, dopo aver messo al sicuro il suo equipaggio, si era limitato a farsi legare all’albero della nave. Voleva capire fino a che punto la sua nostalgia di Itaca lo avrebbe protetto nei confronti di quanto, negli ultimi molti anni di peregrinazione, l’aveva tenuto lontano dalla patria. Il corpo – certo, il corpo si comporta sempre così – era pronto a cedere e doveva essere assicurato da quelle funi. Ma la mente, no. La mente di Odisseo aveva già deciso di proseguire, di non soccombere. E secondo la leggenda le sirene, sconfitte a casa loro da quel pugno di uomini, ne avevano sofferto al punto da precipitarsi in mare. Era credibile che le sirene si fossero lanciate a capofitto tra i flutti perché Odisseo aveva resistito al loro richiamo? È così che funziona con tali creature? Il loro potere è predicato su un successo considerato immancabile. Se non cedi al mostro, se non credi al mostro, il mostro si autodistrugge e scompare. Se Teseo fosse stato fermamente convinto della non esistenza del Minotauro, forse il Labirinto non avrebbe contenuto alcun orrore per lui. Ma ci credeva, e aveva dovuto combattere la creatura figlia del Toro in un duello mortale per sopravvivere. Tuttora, però, c’erano marinai che temevano le sirene, che offrivano loro sacrifici prima di salpare. E su questa penisola – raccontavano – diversi luoghi si contendevano il primato di avere ospitato per primi un sacello in onore delle ammaliatrici. Quanto a Elio, non temeva le sirene, né in mare né sulla terra. Era curioso riguardo alla loro natura primigenia, precedente a qualsiasi altra considerazione del bene e del male che dèi e semidèi potevano elargire agli uomini.” Ben Pastor procede la sua storia disseminando la trama di numerosi indizi letterari, fino a riproporre una personale versione del grande capolavoro russo “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij. “Ascoltare storie di intrighi familiari ha un effetto singolare su di noi, ci fa ripensare alle nostre origini, e ci spinge a riflettere su come le vite dei nostri vecchi abbiano influenzato le nostre.” Elio Sparziano si ritrova invischiato in un feroce parricidio ai danni dell’abbiente commerciante immobiliare greco Teodoro Pelagio. I tre figli, che richiamano nei nomi e nelle caratteristiche fisiche e propensioni i protagonisti del capolavoro dell’autore russo citato, potrebbero essere stati spinti tutti da validi moventi, il che rende più intricata l’indagine. Il mito del padre, a questo punto, si carica di un significato nuovo, che dal singolo si amplia al collettivo. Quanto accade nell’intimità delle singole famiglie patrizie, riflette la condizione complessa e violenta delle famiglie imperiali alla guida del potere, portando alla luce la decadenza morale dell’epoca, così come accadeva nella descrizione della città di Tebe, distrutta, in cui si consuma il parricidio di Edipo. La città di Roma in cui si ritroverà successivamente Elio Sparziano quando verrà finalmente accolto da Massenzio, è segnata da sommosse e dal degrado urbano. Niente a che vedere con la città fastosa tanto glorificata nel passato. A definire Roma un “finimondo” sarà la voluttuosa amante di Sparziano, la Venere venuta dall’oriente, l’astuta imprenditrice che solca i mari sulla nave che porta il nome della Regina delle Amazzoni, Pentesilea. Termuthis, dal pube glabro come l’avorio, sfuggente e audace, smaniosa e indipendente, alla quale Sparziano, in pieno cedimento emotivo di fronte al declino dei valori che lo hanno reso il valoroso soldato a servizio di Roma, chiede: «Che cosa sai delle sirene?» (…) «Ragazzo mio» la sua voce gli giunse vicina e tranquilla. «So che non ti apri quando fai l’amore. Ma a me puoi dire ogni cosa, lo sai. Non di lavoro, quello te lo lascio tutto. Di te.» Non era una risposta alla domanda di Elio sulle sirene, tuttavia quell’invito a rivelare assilli e desideri, e a sperare di risolvere, ottenere, trovare pace, costituiva l’essenza stessa di quelle creature.”
La morte delle sirene di Ben Pastor, Mondadori 2023.
A destra la scrittrice Patrizia Debicke, anche lei presente all’AperiLibro del sabato del 21 ottobre a Voghera.
“La morte delle sirene” descrive una difficile epoca di passaggio, di grandi stravolgimenti politici e morali. Tetrarchia e caduta degli antichi dei. Muoiono se non ce ne curiamo, ovvero se dimentichiamo che esistono, che loro cantano, e quale canto giunge a noi? Le divinità pagane sono differenti dal dio cristiano che presto li sostituirà, sono rappresentazioni delle manie, dei desideri umani. Elio vive in un momento storico in cui l’uomo comincia a dimenticarsene. Elio crede nei valori solidi morali dell’impero, ha sempre servito con onore Roma, ma si ritrova a vivere in una critica epoca di passaggio, in cui l’individuo si sente smarrito, legato al vecchio ma già proteso al nuovo. I valori di un tempo vengono soppiantati da nuovi che si presentano in un clima fatto di violenze e corruzioni morali. Elio Sparziano è, dunque, un nuovo Ulisse? Schiva il rischio di essere vittima del canto delle sirene o c’è ben altro dietro questa sua resistenza? Incarna l’uomo della modernità, che sente un nuovo richiamo, il grido nietzschiano Dio è morto, un nuovo modo di stare al mondo di fronte alla caduta dei valori saldi e certi. Mantenere il controllo di fronte all’avidità sfrenata e alla sete di potere che investe gli stessi regnanti, non più capi illuminati, filosofi rischia di impedirgli di credere in qualcosa, ormai. In bilico, fra l’ardore della battaglia e lo stallo della paralisi interiore, fra l’azione e la passività, il protagonista di questa nuova e acuta indagine di Ben Pastor, incarna la duplice polarità Fuoco/Acqua: ciò che il fuoco espande, l’acqua allenta, così come esprime l’immagine finale del passaggio che segue: “Qui la stagione continua a essere dolce e piacevole. Sui terreni favoriti dal sole pieno e protetti dai venti, i vignaioli stanno già pigiando l’uva, cantando e agitando rami di salice per aiutarsi nel ritmo. In Egitto questi sono i giorni in cui il Nilo esonda e crea ampie lagune lungo le sue rive; le oasi si trasformano in isole, vengono spazzati via i villaggi di mattoni crudi, annegano parassiti, animali domestici, e a volte anche i loro padroni. Fa bene Thermuthis a venir via adesso. Come il Vesuvio segue le imperscrutabili leggi dei vulcani, così ogni anno il fiume egizio porta fertilità, ma non risparmia nessuno. No. Sopravvivono i coccodrilli, che sferzano le acque melmose in cerca di carne viva o morta. Così fuoco e acqua cancellano l’esistenza, e la ricreano.” Scheda del libro: La morte delle sirene di Ben Pastor, Mondadori 2023Autrice: Ben Pastor Genere: Narrativa – Giallo storico Casa editrice: Mondadori Pagine:512 Prezzo: Euro 19,00 ISBN: ‎ 9788804753124   Chi è Ben Pastor: La morte delle sirene di Ben Pastor, Mondadori 2023 nata a Roma da una famiglia di lontana origine ebraica, ma trasferitasi giovanissima negli Stati Uniti dove ha acquisito la cittadinanza, ha insegnato Storia e Scienze sociali presso diverse università americane. Oltre al ciclo dedicato al soldato-detective Martin Bora, è autrice della serie thriller con protagonista Elio Sparziano, storico e investigatore del IV secolo d.C. I suoi romanzi sono pubblicati in quindici paesi.  

Presentato il libro di poesie di Giuseppe Porqueddu – Libreria Ticinum Editore, Collana La Stanza Landini

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Per la Rassegna VogherAutori, la casa Editrice Libreria Ticinum ha presentato, sabato 7 ottobre presso la Biblioteca Civica Ricottiana, la silloge poetica del poeta vogherese di adozione Giuseppe Porqueddu. A dialogare con l’autore, la politica Romana Bianchi, il Dirigente, Provveditore e Ispettore a riposo Pietro Bodini e lo scrittore Guido Conti, autore della quarta di copertina del libro di Porqueddu.
Strategia di parole di Giuseppe Porqueddu . Libreria Ticinum Editore 2023.
La libraia e editrice Elisabetta Balduzzi.
Ha aperto l’incontro la libraia e editrice Elisabetta Balduzzi, che ha posto l’attenzione sull’importanza della poesia, oggi ancora relegata a genere di nicchia per molti editori, seguìta da un intervento di Matteo Landini, il fondatore dello spazio artistico dell’Associazione culturale “La Stanza Landini” sorto nel cuore di Voghera, dove giovani artisti espongono le proprie opere a favore di azioni benefiche per la comunità. Dall’iniziativa, nella primavera 2023, è nata l’omonima collana, senza scopi commerciali, di Libreria Ticinum Editore che si propone di divulgare opere di qualità di Voghera e dell’Oltrepò, i cui ricavati di vendita vengono devoluti al finanziamento di progetti di solidarietà per l’educazione dei bambini in Italia e all’estero.  
Strategia di parole di Giuseppe Porqueddu . Libreria Ticinum Editore 2023.
Matteo Landini, fondatore della Stanza Landini a Voghera.

“Poesia cimento di sopravvivenza,

orchestra lieve di simulazione,

che sfida e non uccide, solo elude

pari insidia del perfido avversario”

(Strategia di parole. Giuseppe Porqueddu)

   
Strategia di parole di Giuseppe Porqueddu . Libreria Ticinum Editore 2023.
Il poeta vogherese di adozione Giuseppe Porqueddu.
“Ha senso pubblicare un libro che imprigiona la vita di una persona, quando la vita è fluida e si contraddice?” È intervenuto con questo interrogativo il poeta Porqueddu, il quale ha ringraziato Libreria Ticinum Editore per la cura e l’attenzione della pubblicazione, nonché vicinanza all’autore sul piano umano, seguìto da Pietro Bodini che ha sottolineato l’importanza della potenza creativa della poesia, in opposizione all’ideologia del servo-padrone e alla condizione di potere che ne deriva. La poesia di Porqueddu, secondo Bodini, si caratterizza per coerenza e coesione nella scelta di parole raffinate. Il suo stile si può ricondurre all’incontro di tre movimenti: la linea colloquiale con echi a Caproni, nell’elusione di eccessivi estetismi; la lingua novecentesca che rimanda al il simbolismo e al Gruppo dell’Officina guidata Pasolini, e infine nel classicismo, con i richiami a Leopardi e a Petrarca. La poesia di Porqueddu è tutta protesa a trovare modi e forme per realizzare stile e significati, dall’amore per la comunità all’amicizia, fino all’amore per la donna che, a differenza dei poeti del Trecento, emerge nella sua “terrestrità”, dall’espressione fragile e malinconica dalla quale si evincono forti valori familiari.
Strategia di parole di Giuseppe Porqueddu . Libreria Ticinum Editore 2023.
Pietro Bodini, Dirigente, Provveditore e Ispettore a riposo.
 

“Amore irrimediabile

che ritorna: sei tu sopra il crinale

inondata di luce, sempreverde

metamorfosi, rosa nel meriggio

di strano autunno, tiepida ossessione

circonfusa d’un aura malinconica.”

(Sul crinale. Giuseppe Porqueddu)

 
Strategia di parole di Giuseppe Porqueddu . Libreria Ticinum Editore 2023.
La politica e ex-docente Romana Bianchi.
Riprende e allarga il discorso sulla femminilità nelle poesie del poeta, Romana Bianchi evidenziando come lo sguardo che il poeta pone sulla donna nasconde la ricerca del posto tutto per sé, una ricerca continua e  difficile in un mondo imperniato di maschile. È un riconoscimento, quello che emerge dai versi, di un essere al mondo femminile diverso, osservato con una consapevolezza nuova.  

“Quando la mia donna

per infinite ore in solitudine

tra un libro e l’altro di cultura varia

                                          stira ancora lenzuola e fazzoletti

                                      E (seppur femminista) anche camicie da uomo…”

                                   (Quando una donna… Giuseppe Porqueddu)

 
Strategia di parole di Giuseppe Porqueddu . Libreria Ticinum Editore 2023.
Lo scrittore Guido Conti.
Guido Conti, autore della quarta di copertina del libro di Porqueddu, che definisce “un’opera matura, ricca di umori, sentimenti e affetti”, ha commentato con sottigliezza e acume lo stile del poeta, dalla scrittura elegante e le immagini personali che descrivono un universo unico e al contempo classicheggiante. Tornando sul tema della memoria e superamento dei limiti femminile, il giornalista Gigi Giudice, presente fra il pubblico, ha ricordato la pittrice vogherese, ex cantante lirica Luisa Pagano, della quale in questi giorni La Stanza Landini ospita un omaggio. Una artista da riscoprire, ancora oggi circondata da un alone di mistero per la sua continua evoluzione pittorica che l’ha resa nel tempo una artista d’avanguardia dallo stile personalissimo. Strategia di parole di Giuseppe Porqueddu . Libreria Ticinum Editore 2023. L’autore della raccolta ha emozionato il pubblico con la lettura dei versi della poesia d’amore “Se tu non fossi” dedicata alla sua musa e moglie. Infine, ha ricordato la molteplicità delle tematiche selezionate, come le poesie che riflettono sulla condizione umana politica e religiosa, fra cui la scelta di resistenza esistenziale agli orrori del suo tempo della giovane filosofa ebrea olandese Etty Hillesum, alla quale sono dedicati i versi: “tu credesti in armonia celeste/realizzata entro te/ moristi forte/d’una letizia eroicamente folle/incontro ad  Auschwitz: tu sopravvissuta/non in carne ma in spirito/ (…) sei risorta/nella memoria d’intimi diari/e noi leggendo, ripensando a te/torniamo vivi a scrivere altra storia.” Così come la storia la fanno coloro, uomini e donne, che rischiano e muoiono per dignità, coloro che oggi sono ricordati come pietre d’inciampo, titolo di una poesia che Porqueddu chiude così:
“Pietre d’inciampo, ma per inciampare
davvero in agnizione senza scampo
di chi fummo e chi siamo: un nuovo campo
da liberare il dì della memoria.”

Uvaspina di Monica Acito

“Una volta Nisida e Posillipo si erano messi a fare l’amore. Poi per tanti motivi non lo poterono più fare. (…) Cosa ci potevano fare Nisida e Posillipo contro il mare? Contro il vento? Contro tutto quello che li separava? A volte uno non può fare altro che inventarsi un po’ di alleria per campare e trovare qualcosa di buono pure là in mezzo.”
Ci sono famiglie che sono come tavoli sghembi. Si tengono in piedi per una forza centrifuga apparente, oscillando fra un moto di tenerezza e uno improvviso di spietatezza. Carmine Riccio, detto Uvaspina, e Minuccia sono fratelli, il primo dai lineamenti delicati, con una riccioluta e bruna chioma sul capo che lo fa sembrare un criaturo angelico, l’altra più goffa e dallo sguardo sempre in tempesta. A seguito  di un amplesso all’ombra di un bosco, sul muschio accanto a un arbusto di uvaspina con cui sua madre si è punta un dito, il primo è nato con “una voglia a forma di chicco d’uva ma pallida come una luna, sotto l’occhio sinistro” e proprio come la bacca si lascia spremere fino all’ultima goccia dagli altri per alleviare, con il suo succo, il dolore altrui, sua sorella è invece stata concepita a seguito del funerale della nonna paterna ed è uno strummolo, una trottola dal punteruolo affilato pronto a colpire, in balia di un movimento rotatorio impossibile da fermare. In giovane età, entrambi assistono alla Resurrezione della loro madre ogni mercoledì sera. La donna, detta La Spaiata per via della riga in mezzo sulla testa che le taglia “in due il cranio, con la stessa geometria con cui Spaccanapoli divideva la città antica tra nord e sud”, muore nel letto una volta a settimana poiché lasciata sola da Pasquale Riccio, suo marito, che si reca al Circolo nautico di Posillipo, di cui è presidente. I due bambini vegliano al capezzale della madre in attesa del suo risveglio, che avviene puntualmente, non senza prima aver lasciato la prole in preda all’angoscia. “Mammà, ti faccio vedere che non ci vai al cimitero, tu devi stare con noi”, ripete ogni volta, disorientata, Minuccia. La Spaiata un tempo era una “chiagnazzara”, veniva pagata per piangere ai funerali. Sempre pronta a chiagnere e a fottere, a furia di fottere è rimasta fottuta dalla vita. Il suo corpo, pingue, ha assunto movenze fiacche e sgraziate. Si trascina sul palcoscenico della sua vita con indolenza, ma sputa grumi di rabbia addosso al marito che la trascura. Non riesce a opporsi, invece, a sua figlia Minuccia, sempre pronta a scagliarsi contro Uvaspina, al quale la donna lancia sguardi imploranti di sopportazione. E Uvaspina subisce, di notte e di giorno, le angherie di Minuccia, mordendosi la lingua ogniqualvolta non fa attenzione alle parole da dirle.
Uvaspina di Monica Acito - Bompiani, 2023
“A Port’Alba Uvaspina poteva osservare chiunque: i ragazzi del liceo che cercavano libri per le ricerche di scuola, le maestre, i preti e alcuni bambini che facevano pietà come i cagnolini ciechi appena nati.”
Uvaspina ama studiare e la poesia di Salvatore Di Giacomo, del quale cerca i libri fra le bancarelle a Port’Alba. Ha anche vinto un concorso di scrittura a scuola grazie a un componimento che, una volta mostrato con orgoglio a casa, è stato stropicciato con rabbia da sua sorella. Femminiello è il soprannome con cui Minuccia schernisce continuamente il fratello. Come se non fossero già abbastanza le angherie dei compagni di scuola. Minuccia disturba, punzecchia, ferisce e sfregia Uvaspina, mettendo spietatamente alla prova la capacità del fratello di sottomettersi alla sua perfidia. Uvaspina subisce, trattiene e si lascia spremere tutto. L’acino viene ogni volta stritolato fra le mani della spietata e volubile Minuccia. Uvaspina, a furia di subire, esplode e decide di liberarsi della sua verginità di anima integra e pura. Salvato dalle acque da Antonio, che lo inizierà alle cose dell’amore, Uvaspina conosce una nuova parte di sé, attiva e desiderante, capace di amare intensamente e anche fragile, per paura dell’abbandono. Minuccia resta preda delle sue emozioni più violente, rabbiosa verso il mondo e chiunque mostri di non darle le dovute attenzioni. Uvaspina comincia a capire come muoversi nel mondo, con un passo più deciso, custodendo dentro sé un amore che ha la forma di grotta, nascosto fra le rocce più possenti e che racchiude il calore più misericordioso. “Quando Antonio gli entrava dentro, non ero soltanto la sua carne a riempirlo, ma le storie di regine, le favole della città antica, dolce e maliziosa, le squame di una sirena che gli sorrideva sempre, il mare, i frutti sani e non spremuti. Perché quando Antonio se lo stringeva al petto come un bamboloccio, Uvaspina si sentiva intero: capiva il senso di quella voglia che aveva sotto l’occhio sinistro e che si portava appresso dal giorno in cui la Spaiata l’aveva sgravato.”
Uvaspina di Monica Acito - Bompiani, 2023
“L’acqua, che lambiva tutto, non corrodeva e non scavava Palazzo Donn’Anna: sembrava, piuttosto, che gli ridesse intorno. Chissà se lì dentro ci poteva entrare: forse quel luogo era solo per i principi, le principesse e per quelli che non erano lui.”
E mentre nell’immaginario cinematografico l’amore omosessuale è quello che resiste al candore di un sentimento, sostenuto da innocenza e tenacia, nel romanzo di Monica Acito si insozza con gesti brutali e reazioni feroci. Nonostante l’intensità del sentimento, Uvaspina oltraggia con la rabbia l’amore che prova. Ma come sempre il rancore nasconde il più antico bisogno di essere amati, proprio come la città in cui si svolgono le vicende, Napoli-Partenope, colei che sembra una vergine, la città nelle cui acque scorrono sperma e sangue, vita e morte. Ed è proprio nell’apparente dicotomia vita-morte che si sviluppa il legame tra i due fratelli, che richiama quello primordiale fra Caino e Abele. Minuccia e Uvaspina sono legati dal sangue, sono, in fondo, figure speculari. Se nello sguardo di Uvaspina si leggono remore e sottomissione, in quello di Minuccia albergano ferocia e spietatezza. Sono opposti, ma al tempo stesso complementari. Minuccia invidia l’eleganza del fratello, Uvaspina vorrebbe un po’ della tenacia della sorella. E se con i loro occhi, in realtà non facessero altro che cercarsi, esplorarsi e, in fondo, ritrovarsi l’uno nell’altra, senza più respingersi sempre? Uvaspina si sacrifica come fa Abele, Minuccia prova invidia verso il fratello come fa Caino, e si mette sempre in competizione con lui, cercando di ottenere quello che Uvaspina conquista, desiderando, riuscendoci ogni volta, di annientarlo. La scrittura di Uvaspina: La scrittura di Monica Acito è vulcanica, un movimento perturbante dallo stile barocco, che spesso rischia di disturbare il lettore. La sua penna incide, come lo strummolo, scava nella ferita fino a farla sanguinare, senza farsi scuorno. Le parole per Monica Acito sembrano proprio il guizzo improvviso che lampeggia negli occhi di Minuccia e travolge ogni cosa. Le parole sono come lapilli fluorescenti eruttati dal Vesuvio. Chiudiamo gli occhi per non farci accecare e, quando li riapriamo, il cielo si è fatto cenere, la vista è offuscata perché, quello che prima guardavamo illuminato dal sole, adesso ci appare più opaco, insozzato da una verità altra, che porta con sé l’autenticità di un vivere che non vogliamo accettare. Monica Acito denuncia, attraverso la forza delle metafore, l’idillio familiare, svuotandolo della sua immagine nostalgica e mitica. Così come demitizza la città di Napoli con l’uso frequente di ossimori: “Tanti secoli prima, la notte di San Giovanni era molto diversa e faceva cambiare tutto, persino il volto di Partenope. Era come se quella sirena isterica si sedesse col culo sul Monte Somma, quello vicino al Vesuvio: mostrava a tutti il suo profilo delicato, ma anche tutti gli sfoghi e le pustole che le nascevano proprio lì, dove cominciava la cosa. (…) Nel sangue di quella gente non c’era l’Italia, ma il Parnaso, l’Olimpo, le ossa dei santi, gli unguenti delle streghe di Benevento e anche le cosce delle mignotte, e tutto veniva mischiato in un grosso impasto che si calcificava nei lineamenti della gente della Campania. Quell’impasto se lo portavano in faccia come il morbillo o come un peccato, nelle occhiaie e nel labbro inferiore.”
Uvaspina di Monica Acito - Bompiani, 2023
“Le vecchie case napoletane puzzavano sempre di sangue: sangue masticato, sangue jettato, sangue raggrumato, sangue delle bestemmie e sangue liquefatto dentro il sugo di pomodoro della domenica.”
Le lenti che l’autrice porge al lettore per guardare la città sono come quelli della piccola Eugenia nel racconto che apre la raccolta di Anna Maria Ortese “Il mare non bagna Napoli”. Lo sguardo innocente è repentinamente soppiantato da una visione truce e lucida. Il sacro e il profano si sovrappongono, la bellezza dell’immagine interiore cozza con quella reale e destabilizza fino alla vertigine. Impossibile non riconoscere dunque gli echi della letteratura nostrana post bellica che di Napoli ha saputo e voluto mostrare gli aspetti più turpi, mescolandoli con un prezioso tocco magico, dalla già citata Ortese fino a Rea, passando per Fabrizia Ramondino. Come i personaggi di Domenico Rea, i protagonisti di Uvaspina sono preda dei loro impulsi più incontrollabili, disinibiti in balìa di un mondo adulto destabilizzato. Ma Uvaspina e Minuccia si compenetrano, con i loro eccessi di calma e ira, fino a modellare un unico paesaggio, composto da acqua e fuoco. Napoli emerge, dunque, come una città multiforme, dall’anima misteriosa, popolata da figure bizzarre e contraddittorie, avvolta in un turbinoso simbolismo metaforico farcito di realismo magico. Monica Acito dà vita a un impasto linguistico, in cui l’italiano si mescola alle forme dialettali che sanno incidere con più efficacia la narrazione e rendere più reali i personaggi. La scrittura di Monica Acito si impone nel panorama della narrativa contemporanea con una espressività tutta sua, verace e mordace. L’autrice osa e mostra la realtà invisibile, facendo di Uvaspina un romanzo poetico.
Uvaspina di Monica Acito - Bompiani, 2023
“La Napoli di Antonio era splendente come certe piante di mare che si vedevano attraverso l’acqua trasparente, non puzzava come la Napoli da cui veniva la Spaiata, dove c’era odore di fogna e pesce avariato. No, non c’era manco odore di fumo che sentiva a Chiaia, il fumo di Merit che impregnava le tende di stoffa pesantee che aveva fatto diventare grigi i soffitti.”
La poesia nel libro è nascosta in ogni riga, perché come intende Martin Heidegger la poesia è la via che “porta alla luce ciò che è nascosto”, rende visibile l’invisibile, così in Uvaspina fra i vicoli più bistrattati di Napoli, maleodoranti e rumorosi, la voracità di affetto dei personaggi si esprime nell’odio e in una collera potenti e ancestrali, che pungono come la scossa provocata dal tocco della medusa sulla pelle della famiglia Riccio. E così come il bruciore dell’ustione poi si placa, così poi torna la frescura, cala il velo di una calma ambigua connaturata all’affetto maldestro, e finisce per avvolgerli tutti. Un accenno al simbolismo di Uvaspina: La poesia di Uvaspina è anche racchiusa nel costante simbolismo delle sottotrame che si contorcono alle file intricate che muovono la trama principale. Napoli è una donna dalle mammelle rigonfie che perde latte e sangue. La Spaiata è unita alla sua Minuccia da un amore viscerale e incondizionato, nonostante subisca i feroci sbalzi d’umore della figlia. “Minuccia, Minuccia sua, nessuno la capiva mai, la sua miniatura, Minuccia del suo grembo, Minuccia delle botte (…) Filomena, Mina, Minuccia, bambina di pietra, che non smetteva mai di abitare il corpo della Spaiata. (…) Spaiata ripeteva il suo nome mille volte nel buio e la bocca le si schiudeva come quella di una carpa fuori dall’acqua, e sentiva il tocco della figlia proprio sull’ombelico, da dove Minuccia era uscita lasciando uno squarcio grande quanto il centro della terra.” A fare da contraltare alla figura della Spaiata, sempre descritta con immagini portentose, è la madre di Antonio: “l’Acquajola era fatta di acqua fresca e sangue sempre nuovo, come quello che si scioglieva al Duomo di Napoli, perché nelle gambe dell’Acquajola c’erano le ferite di tutta Napoli, città mestruata di sangue.” Figure di donne estreme ma anche estremamente fragili nel loro amore verso la prole che le mette in ombra. Ed è quello che infine accade a Minuccia. La trottola finisce di inciampare nel suo stesso filo: il personaggio di Minuccia nell’epilogo subisce. Subisce il suo essere nata donna, con tutti i suoi impeti interiori, vulcanici e irreprensibili, e la sua crudeltà si liquefa ai piedi del Vesuvio, lasciando una impronta rovente nell’animo del lettore, che si riconcilia con l’autrice stessa, la quale nel corso di tutta la narrazione lo ha torturato con una storia dura, aspra, difficile da digerire, ma che lascia il sapore agrodolce al ricordo dei due fratelli che, nel suo immaginario più ancestrale, continuano a lanciarsi occhiate ferine, cariche di un amore incontrollato, sulla riva di una spiaggia. Scheda del libro: Uvaspina di Monica Acito - Bompiani, 2023Autore: Monica Acito Genere: Narrativa Casa editrice: Bompiani Pagine: 416 Prezzo: Euro 20,00 ISBN: ‎ 978-8830109957   Chi è Monica Acito: Uvaspina di Monica Acito - Bompiani, 2023Classe 1993, è cresciuta in Cilento, tra le gole del Calore e i templi di Paestum. Ha iniziato a scrivere da bambina e fin dall’adolescenza ha collaborato con testate cartacee e online. Dopo la maturità classica si è trasferita nel centro storico di Napoli, tra Forcella e Mezzocannone, e si è specializzata in Filologia moderna presso l’Università Federico II. Nel 2019 è approdata a Torino, dove ha frequentato la Scuola Holden. Nel 2021 ha vinto, tra gli altri, il Premio Calvino per la narrativa breve e i suoi racconti sono stati pubblicati su numerose riviste letterarie. È docente di discipline umanistiche presso la scuola secondaria di primo e secondo grado.  

In grazia di Dio di Cristina Biolcati

Le mura dei conventi nascondono misteri, nascondono persone, nascondono inimmaginabili misfatti. I conventi sono luoghi sacri, da sacro, parola indoeuropea che significa separato, e i luoghi di culto sono appunto divisi dai luoghi profani in cui si svolge la vita quotidiana, sono dunque un “altrove” guidato da proprie leggi, luoghi in un certo senso segreti, fino a diventare ostili, ambivalenti, dominati da luci e ombre. Esistono mondi, dunque, nei luoghi sacri, sconosciuti e perturbanti, così come è duplice la polarità del sentimento religioso, in cui coesistono un aspetto terribile e uno affascinante, tremore e stupore. Ed è la parola poetica, così come l’esperienza mistica, che meglio si avvicina al mistero dell’esistenza di cui si fa esperienza attraverso il sacro.
 "In grazia di Dio" di Cristina Biolcati - Todaro Editore, Collana Gechi, 2023
La piccola Allegra Byron in un ritratto del 1800.
La storia che ci consegna Cristina Biolcati è un giallo deduttivo storico coinvolgente, non solo per l’intrigo che si nasconde all’interno di un luogo sacro, ma anche per l’omaggio alla poesia attraverso celebri versi latini e una figura spesso dimenticata dalla storia: Allegra Byron. Nel 1822 il convento di San Giovanni a Bagnocavallo, nei pressi di Ravenna, ospita, fra le educande di famiglie benestanti, la giovane e innocente Allegra Byron, figlia del celebre poeta inglese George Gordon Byron, nata da una sua relazione con Claire Clairmont, imparentata con Mary Shelley. Byron riconobbe la bambina, ma poi, nel 1821, decise di affidarla alle suore Cappuccine del convento di San Giovanni a Bagnocavallo. La storia della piccola Allegra è caduta nell’oblio troppe volte, così come passano in silenzio le vite delle numerose donne rinchiuse nei conventi. Cristina Biolcati ce le restituisce attraverso un cameo dai tratti delicati e al contempo malinconici.
“Una fortezza di pietra inespugnabile, a delineare tutto il perimetro, che pareva inghiottire chiunque volesse entrare.”
L'ex-convento San Giovanni. Bagnocavallo - Ravenna
L’ex-convento San Giovanni. Bagnocavallo – Ravenna
La trama di “In grazia di Dio”: A inizio primavera del 1822, presso il convento in cui l’autrice ambienta gli eventi narrati, giunge il commissario pontificio Alfredo Casadio, affiancato dal suo preposto Dante Graziani, per risolvere il delitto ivi commesso. La più anziana delle consorelle, la novantaquattrenne suor Teresa, è stata infatti ritrovata sgozzata nella sua cella di clausura, dove si era rinchiusa a seguito di un voto. Chi ha avuto accesso alla cella della suora per poter commettere l’efferato omicidio? Il commissario pontificio indaga con zelo la vicenda che si rivela più complessa del previsto a causa del mistero attorno alla figura di Suor Teresa, abile scrivana che aveva contatti con l’esterno solo attraverso la corrispondenza. La vicenda è ambientata dunque all’interno di una comunità di donne, instancabili e fiere lavoratrici, le suore Cappuccine, alle quali nel 1816 era stato affidato il convento. Le suore avevano deciso di farne un educandato per le giovani fanciulle di nobili famiglie. A guidare il convento, la badessa suor Amabile, “una donna bassa e rotonda, con gli occhi azzurri, stretti come capocchie di spillo.” Il commissario pontificio indaga con zelo la vicenda, che si rivela più complessa del previsto a causa del mistero attorno alla figura di Suor Teresa, abile scrivana, mentre l’intrigo si infittisce per la presenza della piccola Allegra Byron. La figura di Alfredo Casadio: L’investigatore creato dalla penna di Cristina Biolcati è un personaggio caratterizzato da una accentuata sensibilità:“La pena che Casadio provò, per quell’esserino fragile e pieno di vita, per quell’angelo biondo che era Allegra Byron, fu immensa. Meglio, era tristezza allo stato puro.” Il costante pensiero ai suoi due figli maschi rivela un’indole premurosa e affabile. Inoltre, emerge più volte in lui una spiccata conoscenza della poesia.

“Dammi mille baci, e quindi cento.”

Sarà proprio l’indizio poetico dei versi di Catullo a dare una nuova svolta alle ricerche del commissario pontificio e che gli consentirà di sbrogliare la matassa. L’aspetto femminile di “In grazia di Dio”: Nonostante l’arguzia e lo spiccato intuito di Casadio, quella del convento è una comunità femminile solida che si rivela difficile da scalfire. Le suore, sotto il giogo della badessa Amabile, sapranno fare fronte comune, rivelando un aspetto spesso sottovalutato del mondo ecclesiastico, ovvero la possibilità della donna di esercitare il proprio potere oltre le mura della comunità, che invece si limita ad attribuirle un mero ruolo di moglie e nutrice. Ma in questa storia sono proprio le prerogative femminili, come la cura per le faccende quotidiane e il senso di accudimento, a rendere vincenti le protagoniste. È questa, dunque, la peculiarità del giallo scritto da Cristina Biolcati: dietro ogni personaggio del lungo racconto “In grazia di Dio” si celano prospettive interessanti da indagare di carattere etico-sociale. Il luogo sacro in cui avvengono le vicende diventa, paradossalmente, teatro di nefandezze e corruzioni morali, riflessione che rievoca le atmosfere di celebri romanzi dello stesso genere passati alla storia. Scheda del libro: "In grazia di Dio" Todaro Editore, Collana Gechi, 2023 Autore: Cristina Biolcati Genere: Narrativa/Giallo Casa editrice: Todaro Editore – Collana Gechi Pagine: 59 Prezzo: Euro 2,99 ASIN: ‎ B0C9JQ5B1T   Chi è Cristina Biolcati: Cristina Biolcati, autrice di "In grazia di Dio" Todaro Editore, Collana Gechi, 2023 di origini ferraresi, è  padovana d’adozione. Laureata in lettere, forte lettrice, è autrice di poesie e racconti brevi. Ama, inoltre, gli animali, l’arte e la filosofia. Collabora con alcune riviste online, dove scrive recensioni di libri e articoli letterari. Fra le sue numerose pubblicazioni, ricordiamo: Nessuno è al sicuro (Edizioni Simple, 2013), un saggio sugli attacchi di squalo in Italia dal 1926 a oggi; Ritorna mentre dormo (DrawUp Edizioni, 2013), una silloge poetica; L’ombra di Luca (Leucotea Edizioni, 2014), una raccolta di racconti brevi; Allodole e vento (Pagine srl, 2014), una seconda raccolta di poesie; Balla per me (Youcanprint, 2017), Le congetture di Bonelli (Delos Digital, 2020), un romanzo giallo breve, e i racconti lunghi: Se Robin Hood sapesse (Delos Digital, 2017), Ciclamini al re (Delos Digital 2018), Dove dormono le fate (Delos Digital, 2021), Talia, la figlia del fabbricante di bambole (Delos Digital, 2022) e Gemino (Delos Digital, 2023).  

La siccità di Guido Conti

“La terra la lavori, ma il cielo non lo domini mai.”

Ci sono estati che segnano un confine nella vita, sono le estati in cui cambiamo pelle, quando ci accingiamo a compiere il rito di passaggio dalla fanciullezza all’età adulta. Sono i momenti in cui non ci riconosciamo più, sappiamo chi eravamo fino a pochi istanti prima, ma non capiamo chi stiamo diventando. Possiamo sapere chi non vogliamo diventare, pur nella consapevolezza che in fondo esistono catene difficili da spezzare. Restiamo in bilico, sulla soglia, passivi spettatori di un conflitto dilaniante, ma necessario per attraversare il confine. “La siccità” di Guido Conti è in primis un romanzo di formazione. Andrea è un adolescente dei giorni nostri che trascorre l’estate lontano dalla città e dai suoi compagni di scuola, aiutando il padre Pietro e lo zio Secondo nelle incombenze contadine. L’estate che si appresta ad affrontare è una delle più torride del nuovo millennio, durante la quale non piove: la terra ha sete e gli animali, deperiti e affamati, si avvicinano sempre più ai centri abitati; i tassi rivoltano le tombe nel cimitero alla ricerca del fresco; i cinghiali, debilitati, si accasciano nei greti dei fiumi, diventando carcasse per altre bestie; di notte, i lupi urlano impazziti. Succedono strane cose a Montù Beccaria, piccolo centro dell’Oltrepo’ Pavese, dove qualcuno, di notte, infilza teste di volpi mettendole ben in vista, di fronte alla casa del sindaco che, in un momento difficile per il raccolto e le condizioni del territorio, diventa bersaglio di scherno e rabbia da parte dei cittadini, aizzati in particolar modo da Pietro. Nel frattempo, nei pressi dell’abitazione di Andrea, al di là del bosco, nella frazione di Case Ferri, qualcuno è tornato da molto lontano. Si tratta di Bruno, un vecchio scontroso e a tratti sinistro, che compare dinanzi ad Andrea in maniera inaspettata. Attraverso i personaggi di Andrea, Pietro e Bruno, l’autore descrive le tre fasi della vita: fanciullezza, maturità e senilità. Andrea ama la sua terra, si rifugia nei boschi dove può osservare gli animali innocenti, ma allo stesso tempo sente l’urgenza di scappare lontano, fuori dalla provincia dura e brulla, per aprirsi a nuove prospettive di vita. Pietro è radicato alla terra, è parte del conflitto fra terra e destino, lotta per mantenere in vita i raccolti e assicurare un futuro ai luoghi natii. Bruno ha fatto ritorno alla sua terra, dopo essersene allontanato, in un passaggio ciclico che lo ricongiunge al suo Io autentico. Ama la solitudine, la vita agreste e bucolica in compagnia delle api. Dice: “Le api sono intelligenti, capiscono il tuo umore e hanno un’anima. Ti assaggiano.”
La siccità di Guido Conti - Bompiani, 2023
Oltrepò Pavese
Quando Andrea incontra Bruno per la prima volta, l’uomo stringe in mano un coltello. É un incontro ambiguo: pur avendone timore, Andrea si sente attratto dalla figura perturbante di Bruno, che con l’arma sembra proprio squarciare il velo che lo divide dalla sua fanciullezza, aprendogli il sentiero verso l’età adulta. Entrambi schivi e solitari, Andrea e Bruno stringono un legame, in cui è ravvisabile la nostalgia per l’età infantile, la comunione con la natura, dove ci si rifugia per sentirsi protetti e dove, infine, ci si stabilisce perché si comprende che quello è l’unico luogo che ci appartiene veramente. Con la sua durezza, l’impetuosità e la freddezza, Pietro irrompe in questo idillio e smuove la coscienza di Andrea, il quale in un primo momento smania di entrare a far parte del mondo adulto, vorrebbe accompagnare il padre e lo zio nelle scorribande notturne nei boschi, dall’altra scopre che forse quel mondo brutale non gli appartiene. “Suo padre non gli aveva mai fatto una carezza, non gli aveva mai detto una parola di lode, era un uomo venuto su dalla terra, e della terra aveva il cuore asciutto e scabro, con tutte le sue crepe.”
Giovannino Guareschi, biografia di uno scrittore di Guido Conti, Premio Hemingway 2008
Giovannino Guareschi, biografia di uno scrittore di Guido Conti, Premio Hemingway 2008
Quando finalmente li accompagnerà nella battuta di caccia, affronterà il suo il rito di iniziazione. Ma la vista del sangue e la ferocia verso gli animali lo destabilizzeranno, al punto che comincerà a ribellarsi all’autorità paterna. Pietro rappresenta, dunque, la forza conservatrice alla quale si oppone quella propulsiva di Andrea nella dialettica passato-presente, vecchio-nuovo. “La morte è come quando un cane sparisce”, pensò, “si perde. Gira e rigira ma non trova più la strada di casa.” L’estate della grande siccità significherà per Andrea proprio congedarsi dal passato e dalle figure a lui care, attraverso l’incontro con la morte e con le asprezze della vita dei campi. Ad accoglierlo ci saranno le braccia ruvide, ma ben salde, di Madre Natura, la quale dona, toglie, abbandona e insegna, in un divenire ciclico costante e immutabile.  

“Piove poco e quando piove, piove male”, commentò Pietro.

“Piove poco perché non avete fede” (…) “ … non c’è scienza che tenga. Non si domina il cielo.”

Il grande fiume Po di Guido Conti - Giunti 2020
Il grande fiume Po di Guido Conti – Giunti 2020. Premio Carlo Levi 2013.
La figura materna resta in ombra nella storia che racconta Conti, ma al contempo i suoi interventi sono ogni volta decisivi. Elvira racchiude in sé le prerogative femminili più arcaiche: protezione, empatia, sensitività. Si fa custode delle tradizioni, di quelle credenze popolari che si rivelano propiziatorie, come i rami di ulivo da bruciare e le due croci segnate con la scopa prima dell’arrivo del temporale, rito che risparmia dalla grandine i loro campi, dove “il tempo ha girato in maniera strana”.

“Questa è diventata terra di nessuno. Sono tutti morti quelli che abitavano queste tre case.”

“La siccità” di Guido Conti è un omaggio all’Oltrepò e alla sua gente che resiste alla trasformazione e all’annientamento che porta con sé la modernità. É un inno al legame autentico che si stabilisce con la terra natìa, nei confronti della natura di verghiana memoria con le sue contraddizioni, tanto malvagia quanto accogliente e protettiva. Come nelle novelle “Vita nei campi,” i sentimenti che guidano i personaggi sono: alacrità, dolore, solitudine, perdita di affetti, rabbia e vendetta verso le ingiustizie sociali. Gli agricoltori lavorano e lottano duramente e, impotenti di fronte alla siccità, soffrono in silenzio. Ma restano e combattono, perché amano la loro terra, dove la natura ha un’anima.

“Se la terra soffre, soffriamo anche noi. Se il bosco ha sete anche la nostra anima ha sete. L’aridità è nell’anima delle persone.”

Nella nota conclusiva, Guido Conti dichiara di essersi ispirato ai lunghi racconti che compongono la trilogia di Romano Bilenchi, “La siccità” “La miseria”, “Il gelo”, riuniti nel volume “Gli anni impossibili”. Dei racconti riprende molti temi, come l’esplorazione del mondo dell’adolescenza e il conseguente passaggio all’età adulta e la spietatezza della natura che richiama la sterilità sociale, ma a un secolo di distanza Conti si fa portavoce dell’impatto socio-economico che i cambiamenti climatici hanno sulle comunità rurali, quali i disordini sociali e il rischio delle ondate di malcontenti, inducendo a una urgente riflessione etico-morale, prima su tutte la responsabilità delle scelte individuali nei confronti delle generazioni future. Scheda del libro: La siccità di Guido Conti. Bompiani, 2023Autore: Guido Conti Genere: Narrativa Casa editrice: Bompiani Pagine: 192 Prezzo: Euro 17,00 ISBN: ‎ 978-8830119307   Guido Conti, scrittoreLa siccità, Bompiani 2023Chi è Guido Conti: parmigiano, è scrittore, illustratore, editore, saggista e insegnante. Ha vinto il Premio Chiara 1998 per i racconti de Il coccodrillo sull’altare, il Premio Selezione Campiello 1999 per I cieli di vetro, il Premio Hemingway per la critica 2008 con Giovannino Guareschi, biografia di uno scrittore e il Premio Carlo Levi 2013 con Il grande fiume Po. Tra i suoi romanzi, Il tramonto sulla pianura, Le mille bocche della nostra sete e Quando il cielo era il mare e le nuvole balene. Ha scritto e illustrato la saga della cicogna Nilou, tradotta in molti paesi. Come saggista ha pubblicato per Libreria Ticinum Editore Cesare Zavattini a Milano (1929-1939). Letteratura, rotocalchi, radio, fotografia, editoria, fumetti, cinema, pittura e La città d’oro. Parma, la letteratura 1200-2020. Come insegnante ha pubblicato Imparare a scrivere con i grandi. Da oltre vent’anni tiene laboratori di didattica della lettura e della scrittura dalle scuole elementari ai master universitari di comunicazione.