Premio Letterario Città Asti

Con una cerimonia all’insegna dell’arte e dell’amore per la cultura, si è conclusa, a fine gennaio presso i locali di Letteratura Alternativa Edizioni & Asti Art Gallery, la Prima Edizione del Premio Letterario Città di Asti. Durante la serata finale, che ha visto i quattro vincitori, uno per ciascuna sezione prevista (narrativa edita, narrativa inedita, poesia edita e poesia inedita) premiati dai giurati (l’artista e scrittore Pablo Toussaint; lo scrittore, fotografo e critico d’arte Roberto Portinari; il musicista e scrittore Francesco Landi; la book blogger e autrice Domizia Moramarco, e il Presidente Romina Tondo, Editore di Letteratura Alternativa Edizioni) il pubblico ha assistito alle esibizioni dell’ospite d’onore, il cantautore e musicista italiano Andrea Crimi.

Di seguito, l’intervista ai vincitori delle quattro sezioni.

ANDREA BLOISE, Primo Classificato nella sezione Narrativa edita

Con “Storie di Lui” – La Caravella Editrice, Andrea Bloise ci parla di un uomo alla scoperta di se stesso, Lui, nella vita di tutti i giorni. Un uomo dal mondo interiore complesso e versatile che, tra riferimenti musicali, a ritmo scanzonato, e peripezie quotidiane di ordinaria frustrazione, affronta il presente accanto a Lei, punto fermo e imprescindibile. La narrazione, dal ritmo veloce e il tono ironico, rimbalza fra l’immediatezza del presente e la presa di coscienza di sé, mezzo con cui il protagonista si presenta al mondo.

Ci racconti, in poche parole, chi è Andrea Bloise e cosa significa per te scrivere?

«Salernitano di 37 anni, sono nato ufficialmente ad Agropoli, porta del Cilento, vivo da sempre a Salerno. Qui, a parte un anno e mezzo trascorsi a Roma tra il 2011 e il 2012, ho studiato, sono cresciuto e mi sono laureato in Semiotica del Teatro (triennale) e Comparazione mediale (magistrale). Tra la città di Arechi II e la località cilentana in cui sono venuto alla luce, ho sin qui costruito la mia vita tra le parole, il mare, le assi del palcoscenico e il tifo per la Salernitana. È difficile inquadrarmi con una sola etichetta: sono un attore e regista teatrale con ormai 20 anni di esperienza sulle spalle, sono un web designer, un copywriter, un correttore di bozze e un editor letterario. L’elemento che collega saldamente tutte queste mie attività e gli studi è sicuramente la parola, sia parlata che scritta. Sembra, dunque, una conseguenza naturale quella di essere diventato anche autore, un’ennesima sfaccettatura artistica nella quale trova più facile sfogo la mia personalità. Mentre in Teatro sono al servizio di un carattere, di un regista e di un drammaturgo, con la scrittura, paradossalmente, il velo cade, parole e pagine sono l’emanazione più diretta della mia essenza. Scrivere è, per me, un atto faticoso, ma, proprio per questo, una volta compiuto, è fonte di enorme gratificazione. Ci tengo a piacere prima a me stesso, altrimenti non rendo pubblico. Riconoscimenti e approvazione sono, poi, il suggello necessario, come gli applausi al termine di uno spettacolo teatrale.»

Che tipo di lettore sei e quali autori influenzano la tua scrittura?

«Sono, innanzitutto, un lettore pessimo! Frammento, abbandono, riprendo, cambio, non sono costante. Ma, se un autore mi convince e intercetta il mio gusto, lo seguo. È il caso di Antonio Manzini, inventore di Rocco Schiavone, e Nick Hornby: del primo apprezzo e condivido la descrizione degli istanti, del secondo l’ironia e la qualità analitica delle relazioni. Di entrambi mi piace la profondità di scandaglio dell’essere umano, tanto nel pensiero razionale quanto nell’intimo più istintivo. Sono, poi, molto influenzato dal Teatro, come attore e regista mi sono confrontato, e spero di continuare ancora, con drammaturgie e personaggi di grande spessore, testi e battute che lasciano il segno in chi, poi, è destinato a riproporli in scena.»

La scrittura per te è un rituale o un gesto istintivo che nasce da una improvvisa ispirazione?

«La programmazione in testa c’è, ma, praticamente, scrivo quando sento di volerlo fare. L’ispirazione è un valore fondamentale della mia scrittura e l’intuito è centrale nel mio comporre, in quanto basato molto sulle associazioni di idee, sugli accostamenti di sensazioni a concetti e sui giochi di parole, tutti meccanismi mentali creativi caratterizzati da improvvisazione e intuito. Poi, però, la scelta dei termini è largamente soppesata.»

Come è nata e come si è sviluppata l’idea dell’opera con cui hai partecipato alla prima edizione del Premio Città di Asti?

«“Storie di Lui” è sia un libro con una narrazione che prosegue diacronicamente, con uno sviluppo di fatti e personaggi che avanza e matura dalla prima all’ultima pagina (e anche oltre, chissà…), sia un testo a episodi, ciascuno che si apre e chiude con una stessa parola, espressione o concetto, leggibile da solo o insieme agli altri. Ed è proprio così che è nato, a episodi: alcuni come appuntamenti settimanali, seguendo la pratica di esercizio scrittorio social, altri come momento di bisogno privato di portare avanti e a compimento il tutto, col chiaro intento di pubblicare.»

Come hai vissuto la partecipazione al concorso e cosa ha rappresentato per te il riconoscimento ottenuto?

«Il desiderio di partecipare per vincere era presente in me sin dal momento dell’iscrizione, non ne faccio mistero. Non tanto per volontà di primeggiare – non sono per niente un competitivo – quanto, piuttosto, per necessità di conferme e sprone a proseguire lungo questo percorso. Ho altri progetti narrativi e un premio, in questo esatto momento, è una spinta forte a portarli avanti. La motivazione che ha accompagnato il riconoscimento mi ha fatto decisamente piacere. Questo primo premio ha, inoltre, un valore affettivo particolare. Non mi è stato possibile essere presente alla cerimonia di premiazione per via del ricovero in ospedale di mio padre avvenuto nei giorni immediatamente precedenti e la notizia della vittoria è stata l’ultima cosa che gli ho comunicato, seppur ormai in rianimazione, prima della sua definitiva scomparsa lo scorso 13 febbraio. Credo di averlo comunque reso contento e soddisfatto di me.»

DAVIDE GRITTANI, Secondo Classificato nella sezione Narrativa edita

Con “La bambina dagli occhi d’oliva” – Arkadia Edizioni, Davide Grittani ci consegna una storia che spiazza, travolge e inquieta, in un crescendo emotivo che disgrega certezze e valori. “La bambina dagli occhi d’oliva” è il racconto perturbante della violazione dell’innocenza infantile, ma non solo, attraverso una narrazione lucida, ma mai spietata, che indaga le zone d’ombra dei luoghi familiari in cui si annidano pericoli e violenza più impensabili. Una scrittura immersiva e sensoriale che rapisce e rovescia ogni punto di riferimento al quale nella vita cerchiamo di ancorarci per non crollare. La storia narrata è un omaggio a Dolores O’Riordan, leader dei Cranberries.

Ci racconti, in poche parole, chi è Davide Grittani e cosa significa per te scrivere?

«Sono uno scrittore e giornalista, nato nel 1970. Mi occupo da sempre di scrittura, che ho sempre vissuto come un’urgenza personale. Scrivo sotto indignazione, nel senso che la scrittura per me rappresenta innanzi tutto un atto etico, nobilissimo, un atto fortemente identitario, attraverso cui conoscere a fondo una persona (un autore), ciò che pensa, ciò in cui crede, e ovviamente come scrive, che rispetto possiede della lingua, del suo impiego, delle sue straordinarie potenzialità. Ecco perché il più grande tradimento della scrittura per me è coinciso con l’accoglimento dello spettacolo e della televisione come “metri di paragone”, la letteratura che si misura con altri generi di intrattenimento – producendo solo gialli, triller scadentissimi, noir e altro materiale di trascurabile qualità – rappresenta a mio parere il più grande tradimento della letteratura intesa come “missione umana”, appendice testamentaria del libero pensiero.»

Che tipo di lettore sei e quali autori influenzano la tua scrittura?

«Non sono un grande lettore, non nel senso numerico del termine. Leggo 45/50 libri l’anno. Ma spesso li chiudo prima della trentesima pagina, quando un libro non ha niente da dire lo capisci dalle prime 7/10 righe. Basta leggere Il più grande criminale di Roma è stato amico mio di Aurelio Picca (Bompiani, 2020) per capire che da una certa visceralità, totalità, ampiezza, la scrittura non può prescindere. La scrittura è un gesto eroico, la lettura un gesto volontario. Farsi del male, per l’appunto volontariamente, con libri orribili, pur di portarli a termine, non ha alcun senso.»

La scrittura per te è un rituale o un gesto istintivo che nasce da una improvvisa ispirazione?

«É un atto etico, come detto prima. Prima di scrivere un romanzo, bisognerebbe fermarsi a riflettere per qualche mese sulla sua effettiva utilità, con grande approccio critico e soprattutto con grande coscienza. Che senso ha quello che vorremmo scrivere? Ce n’è davvero bisogno? Che impronta potrebbe lasciare il suo passaggio? Ecco, se tutti i miei colleghi si fermassero a riflettere un po’ di più su queste domande, in Italia avremmo la metà dei 73.000 libri che invece ogni anno vengono pubblicati, danneggiando un settore già in profonda crisi, illudendo i lettori di una presunta qualità che invece è solo supponenza. Per fortuna esiste ancora un sottobosco, il sottobosco dei piccoli editori che producono cose bellissime, spesso sconosciute ai più.»

Come è nata e come si è sviluppata l’idea dell’opera con cui hai partecipato alla prima edizione del Premio Città di Asti?

«Dal racconto della genesi di Profondo rosso, consegnatomi direttamente e personalmente dal maestro Dario Argento. Sotto le carte da parati dei nostri appartamenti ci sono messaggi criptati e confessioni segrete molto interessanti, perché raccontano di noi – anche delle nostre cose peggiori, delle più abiette – senza censure, senza pudori, senza convenienze di sorta. Ci si abbandona alla purezza dei muri, le pareti custodiscono da sempre la forma di comunicazione catacombale più antica nella storia dell’umanità. Ecco com’è nato La bambina dagli occhi d’oliva, un romanzo che non parla di pedofilia ma delle nostre responsabilità verso i bambini.»

Come hai vissuto la partecipazione al concorso e cosa ha rappresentato per te il riconoscimento ottenuto?

«Sono davvero felice del secondo posto al premio Città di Asti, che viene dopo diverse finali in altrettanti concorsi (ben sette) e dopo la vittoria al premio Alda Merini 2022 e dopo la vittoria al premio Città di Siena 2022. La bambina dagli occhi d’oliva è un romanzo che mi ha dato enormi soddisfazioni, ma anche molto dolore. Scrivere di quegli argomenti lascia senza pelle, senza difese. Ecco perché per il nuovo romanzo – prima di scrivere il quale mi sono chiesto molto approfonditamente se servisse o meno 😉 – ho scelto di intraprendere la strada dell’ironia, la musa più sfuggente e più intelligente di cui dispone il genere umano.»

MARCO AVONTO, Terzo Classificato nella sezione Narrativa edita

Con “Gli irredenti” – Morellini Editore, attraverso una scrittura immersiva e asciutta, Marco Avonto ci presenta un romanzo corale le cui voci narrano di degrado sociale e condizioni precarie ai margini di una immaginaria cittadina della provincia piemontese, alle quali i personaggi sembrano condannati da sempre e per sempre. Le loro vite (s)corrono sul filo di un rasoio già insanguinato. Con un linguaggio crudo e diretto, la narrazione procede nei dialoghi serrati che accelerano il ritmo in un crescendo della tensione che travolge e coinvolge il lettore, facendolo sentire spettatore attivo della messa in scena drammatica e realistica di uno spietato scontro generazionale della fine degli anni ’90, in una Italia di periferia abbandonata a se stessa.

Ci racconti, in poche parole, chi è Marco Avonto e cosa significa per te scrivere?

«Scrivere rappresenta per me il modo per raccontare le storie e le vite dei personaggi che si susseguono nella mia mente. Raccontare storie è una cosa che mi è sempre piaciuto, fin da bambino, quando inventavo nuovi episodi delle saghe dei personaggi dei miei fumetti preferiti.»

Che tipo di lettore sei e quali autori influenzano la tua scrittura?

«Penso che ci sia una forte influenza di un certo tipo di letteratura americana nel mio stile, in particolare quella del Novecento; e se da un lato sento fortissima la fascinazione delle ambientazioni southern gothic dei romanzi di Faulkner o dei racconti di Flannery O’Connor, ho sempre amato e per certi versi ho trovato molte consonanze tra la scrittura asciutta, diretta e precisa dei minimalisti, Carver sopra tutti. Penso che nel tempo (ho iniziato a scrivere da ragazzo, ma “Gli Irredenti” è la mia prima opera pubblicata) la mia voce di narratore abbia incorporato elementi di questi grandi maestri che mi hanno ispirato fino a diventare, nel bene e nel male, quella di oggi: e tuttavia, visto che la stesura del romanzo ha richiesto un po’ più di un paio d’anni, ho trovato variazioni ed evoluzioni dello stile dalle prime stesure alle ultime revisioni. Il che mi conforta, perché significa che come tutte le cose vive anche lo stile cambia e si evolve.»

La scrittura per te è un rituale o un gesto istintivo che nasce da una improvvisa ispirazione?

«Seguo la regola del “20% ispirazione, 80% traspirazione”. Ossia l’idea, il nocciolo della storia, o magari anche solo una immagine o una sequenza (sia essa quella di apertura o un’altra, potenzialmente anche quella finale), possono colpirmi in un qualsiasi momento della giornata (o magari di notte, visto che soffro periodicamente di insonnia). Dopodiché applico, o cerco di applicare, un “metodo”, o per usare le tue parole, un “rituale”: tutte le sere devo scrivere almeno una pagina di materiale, e se proprio non riesco a produrre alcunché di nuovo, correggo e rivedo quello che ho fatto fino al giorno prima.»

Come è nata e come si è sviluppata l’idea dell’opera con cui hai partecipato alla prima edizione del Premio Città di Asti?

«L’idea mi è nata osservando (e per un certo periodo della mia vita) vivendo in un paesino di provincia, fortunatamente più ridente e meno cupo di quello che ho descritto nel romanzo. In effetti penso che il vero protagonista del mio romanzo sia il luogo, o meglio il non-luogo, che permea di sé tutte le storie, con i personaggi che in realtà da protagonisti diventano comprimari. E’ il luogo, è il contesto, che mi affascina. Mi sono immaginato un evento che sconvolge un insieme di esistenze ad un tempo torpide e torbide, e ho voluto provare a raccontare come le vite di questi “irredenti” ne siano toccate e che cosa ne derivi. E ho voluto provare a descrivere un luogo in cui, per citare i versi di una canzone rock dei Blackberry Smoke che trovo molto appropriata, “tutto sembra uguale, eppure non è più lo stesso”».

Come hai vissuto la partecipazione al concorso e cosa ha rappresentato per te il riconoscimento ottenuto?

«La partecipazione al concorso è stata una bella emozione: ma non quanto ricevere la comunicazione che ero entrato a far parte della sestina finalista del Premio, ovviamente. E ancora di più quando ho sentito il “maestro di cerimonie” che mi invitava ad andare a ritirare il premio per il terzo classificato! É sempre una sensazione bellissima quella di vedere il proverbiale frutto del proprio sudore che viene apprezzato… E tale è stata l’emozione sul momento che stavo ritornando a posto senza aver ritirato la statuetta!»

ANTONELLA DE BEI, Prima Classificata nella sezione Narrativa inedita

Con il suo romanzo inedito “Controvento”, Antonella De Bei narra la vicenda di un intenso legame fraterno che si sdipana su un duplice piano temporale: passato e presente, con un cambio di registro repentino, passando da un linguaggio più immersivo a uno più immediato e colloquiale. Il romanzo trova il suo punto di forza nell’impatto emotivo che emerge dal consolidato legame fraterno e nel riscatto di una maternità di cui viene svelata una innata ambiguità, oscillando fra inaspettate crudeltà e affrancamento dai luoghi più comuni che da sempre intrappolano il mito della maternità.

Ci racconti, in poche parole, chi è Antonella De Bei e cosa significa per te scrivere?

«Sono un’ex insegnante, appassionata alla scrittura da circa una quindicina d’anni, da quando una brutta ernia del disco mi ha costretta a letto per mesi. Cosa significa per me scrivere? Non riesco ad associare il verbo “scrivere” al coinvolgimento emotivo nella narrazione di un romanzo: si scrive una mail per una richiesta più o meno formale, o la lista della spesa prima di recarsi al supermercato. Per un romanzo opterei piuttosto per RACCONTARE ESPRIMENDO: un infinito più un gerundio che calzano alla perfezione, come un abito aderente prima di mettere su chili!»

Che tipo di lettrice sei e quali autori influenzano la tua scrittura?

«Quando insegnavo Italiano alla scuola primaria, ero solita ripetere ai genitori: “Non importa la tipologia di libri scelti dai vostri figli, l’importante è che leggano. All’inizio vanno benissimo anche le etichette delle bottiglie dell’acqua!” Ecco, le mie letture sono un po’così, investono una sfera molto variegata. Se dovessi pensare a un’autrice che mi piace in particolare, direi Mazzantini. Ho adorato il suo “Venuto al mondo”.»

La scrittura per te è un rituale o un gesto istintivo che nasce da un’improvvisa ispirazione?

«La scrittura per me è un richiamo. Passano giorni interi senza che mi sieda al computer in cerca d’ispirazione, poi d’improvviso, come una ventata d’aria buona in faccia, mi prende il desiderio impellente di buttar giù pensieri che evochino le mie emozioni. Le parole, eruttate alla rinfusa dal vulcano che mi ribolle dentro, vengono poi coccolate, lisciate con cura, sistemate in file ordinate per due, per ripulirle dal caos iniziale in cui hanno avuto modo d’essere.»

Come è nata e come si è sviluppata l’idea dell’opera con cui hai partecipato alla prima edizione del Premio Città di Asti?

«Il romanzo si articola in due momenti ben distinti: “Oggi…” riferito al presente, e “Ieri…”, basato sui ricordi di Antò e Giò, i due fratelli protagonisti. Per quanto riguarda “Ieri”, che descrive le violenze subite dai due personaggi durante l’infanzia, è frutto della mia esperienza come insegnante, e in particolare al momento in cui decisi d’espormi in prima persona, denunciando l’abuso sessuale di un padre nei riguardi della propria bambina. Purtroppo i servizi sociali preposti non riuscirono allora a interrompere quella spirale di violenza, e la mia alunna, dopo un breve allontanamento dalla famiglia naturale, tornò a essere vittima del carnefice che l’aveva messa al mondo. Il silenzioso grido d’aiuto di Claudia ha lasciato un solco profondo dentro di me. E solo oggi, attraverso le pagine di un romanzo, ho avuto occasione di dar voce a una bimba che ormai è donna e madre ma che, a differenza dei protagonisti di “Controvento”, non ha ottenuto alcun riscatto. Perché Claudia oggi è un’alcolizzata cronica, che si trascina da un ricovero all’altro per allucinanti crisi d’aggressività, in cui riversa la rabbia anche sui suoi stessi figli. Per fortuna il libro ha anche una parte decisamente più leggera, riferita al presente: l’unica fonte d’ispirazione è stata la nascita tanto attesa di Lorenzo, il mio Bollicino!»

Come hai vissuto la partecipazione al concorso e cosa ha rappresentato per te il riconoscimento ottenuto?

«Ho partecipato a diversi premi letterari, classificandomi per tre volte al primo posto. Ma la selezione al premio di Asti è arrivata in un momento particolarmente problematico della mia vita, che mi ha impedito di presenziare alla serata di premiazione. E abbattuta mi davo già per sconfitta, quando di primo mattino ho ricevuto una mail, la quale mi informava che il mio romanzo era risultato vincitore. È stato uno spiraglio di luce che mi ha dato forza nuova, una linfa vitale che mi sta sostenendo tuttora!»

PLACIDO DI STEFANO, Secondo Classificato nella sezione Narrativa inedita

Con “Apnea”, Placido Di Stefano narra di un uomo in fuga con sua figlia, dopo la separazione dalla moglie. Il romanzo è un viaggio che prosegue su plurimi binari, quelli del passato e del presente, a più voci, quella del padre e della figlia, e che ripercorre tutte le tappe di un amore, dal fulgore al tramonto, passando per l’importante punto di snodo che è la genitorialità. Apnea porta alla luce la crisi di una coppia contemporanea alle prese con la gestione del lavoro, la famiglia e il desiderio/necessità di avere tutto sotto controllo, che disorienta e atterrisce sino a far crollare il mito della famiglia (sempre) felice.

Ci racconti, in poche parole, chi è Placido Di Stefano e cosa significa per te scrivere?

«Placido Di Stefano è un siciliano trapiantato nel milanese. Diplomato in scrittura drammaturgica presso la Civica Scuola d’Arte Drammatica di Milano “Paolo Grassi”, ha vinto ed è stato selezionato in diversi concorsi letterari con racconti di vario genere (nei primi anni 2000). Tra il 2007 e il 2015 ha pubblicato due romanzi con la casa editrice peQuod di Ancona, entrambi finalisti in importanti premi nazionali. Negli stessi anni è stato a un passo dalla Mondadori. Per quanto riguarda il suo rapporto con la scrittura, a volte ha la sensazione di essere inseguito dalle parole, altre volte invece, è lui stesso a inseguire le parole. Questo gioco, apparentemente privo di senso e meramente metafisico, prende una sua forma nel momento in cui una storia si concretizza sulla carta.»

Che tipo di lettore sei e quali autori influenzano la tua scrittura?

«Sono il classico lettore da quattro/cinque libri sul comodino. Due nello zaino del lavoro. Uno in macchina. Due in ufficio. I miei autori di riferimento son parecchi. Vista l’età (52 anni), posso dividere le mie passioni in ere. Era autori americani del novecento (Lost Generation, Beat Generation, H. Miller, J. Fante, C. Bukowski). Era russi (Dostoevskij e Tolstoj su tutti). Era francesi (in particolare Flaubert e Hugo, ma anche i poeti maledetti). Poi gli austriaci Thomas Bernhard e Peter Handke. Più recentemente posso citare autori americani contemporanei quali DeLillo, D.W. Wallace, McCarthy. Tra gli italiani: Pasolini, Calvino, Balestrini, Tondelli, Fenoglio. Tra i contemporanei italiani: Genna, Nove, Trevisan. Comunque, se devo citare tre autori che mi hanno forgiato (soprattutto all’inizio del mio percorso): Kafka, Beckett, Céline.»

La scrittura per te è un rituale o un gesto istintivo che nasce da una improvvisa ispirazione?

«Visto che per vivere faccio altro (ovvio), la scrittura per me è un rituale, ovvero un ritaglio quotidiano necessario. Sono un pendolare che dalla provincia si sposta nella grande metropoli (Milano). Tutte le mattine, appena salgo sul treno, scrivo per mezz’ora. Lo stesso al ritorno. La sera, dopo aver messo a letto i bambini (ho due figli di 9 e 11 anni), scrivo per un’altra oretta. In pausa pranzo invece, approfitto del tempo libero per leggere.»

Come è nata e come si è sviluppata l’idea dell’opera con cui hai partecipato alla prima edizione del Premio Città di Asti?

«“Apnea”, il romanzo che ha partecipato al Premio Città di Asti, ha avuto una gestazione piuttosto lunga. È il mio quarto romanzo scritto (per la cronaca, sono arrivato al sesto). In origine aveva un altro titolo e una struttura diversa, pur mantenendo lo stesso plot. È passato al vaglio di qualche agente letterario. Ha subito tagli. Rivisitazioni. Editing. Finché, dopo qualche anno, è arrivato alla sua stesura definitiva. L’idea nasce da un articolo di cronaca (un padre separato che porta via con sé la figlia). La prima bozza era sotto forma di racconto breve. Poi ci ho mescolato vicende personali sotto forma di fiction e nel tempo il manoscritto si è trasformato nel romanzo attuale.»

Come hai vissuto la partecipazione al concorso e cosa ha rappresentato per te il riconoscimento ottenuto?

«Ho pubblicato il primo romanzo nel 2007. Il secondo nel 2015. Non sono mai stato abile nelle pubbliche relazioni. A un certo punto, nonostante il curriculum, ho avuto difficoltà a trovare una casa editrice. Poi mettiamoci anche la vita di tutti i giorni, la famiglia, e via discorrendo, ho perso i contatti e non sono riuscito a ripristinarli. Nel frattempo il mondo è cambiato. Anche i riferimenti sono cambiati. Ho pronto diverso materiale. Per capire se è materiale pubblicabile (ovvero coerente, ben scritto, etc.), invio i diversi lavori ai concorsi letterari. Nell’ultimo anno ho raggiunto cinque finali con tre romanzi inediti diversi. Quando raggiungo una finale, penso di aver fatto un buon lavoro. E il Premio Città di Asti con la gratificante motivazione della giuria, me lo ha confermato in modo ulteriore.»

DIEGO BALDASSARRE, Primo Classificato nella sezione Poesia edita

Nella silloge poetica “6090” (SessantaNovanta) – Il Convivio Edizioni, scorrono frammenti di vita quotidiana che confluiscono nella riflessione esistenziale di un uomo che cresce e si interroga dinanzi al passare del tempo. Nei versi di Baldassarre si coglie l’urgenza di affidarsi al potere salvifico della poesia, risposta al vivere veloce e confuso contemporaneo.

Ci racconti, in poche parole, chi è Diego Baldassarre e cosa significa per te scrivere?

«Sono nato a Roma nel 1969 e, dopo aver girato l’Italia da nord a Sud, da circa 20 anni risiedo tra le accoglienti colline sopra Pistoia. Alterno l’insegnamento alle scuole superiori con la libera professione di Agronomo.Scrivo poesie dall’età di 12-13 anni. Ho sempre filtrato il mondo attorno a me attraverso la poesia ed è stata, per lunghissimo tempo, una passione privata. Praticamente non ho pubblicato nulla prima dei 40 anni e l’ho fatto su pressione di amici che avevano letto i miei scritti. Se non scrivo per troppo tempo mi sento nervoso, come se cercassi qualcosa che non riesco ad afferrare e che però sento indispensabile per l’equilibrio interiore. In sostanza scrivere, per me, è una necessità.»

Che tipo di lettore sei e quali autori influenzano la tua scrittura?

«Direi che come lettore sono piuttosto onnivoro. Leggo romanzi, saggi scientifici, ogni tanto fumetti e molta poesia. Solitamente, leggo contemporaneamente un libro di prosa e uno di poesia. La mia scrittura poetica non credo che sia influenzata dall’autore che sto leggendo in quel momento o da quello che ho letto poco prima. Leggere poesia, in realtà, consente di calarmi in una atmosfera interiore che a sua volta stimola il pensiero poetico. Il mio “pantheon” sarebbe sterminato ma alcuni poeti hanno influenzato il mio modo di percepire la scrittura poetica più di altri. Il primo, incontrato alle medie, è stato senza dubbio Giacomo Leopardi; poi, al liceo, Eugenio Montale ed infine, in età adulta, Valerio Magrelli. Ognuno di loro, a suo modo, ha influito enormemente sul mio modo di concepire la poesia.»

La scrittura per te è un rituale o un gesto istintivo che nasce da una improvvisa ispirazione?

«Come scritto prima, per me scrivere è una necessità ma il percorso creativo non è quasi mai lineare. Sicuramente una poesia nasce da una intuizione, spesso da un solo verso da cui iniziare. Dopo, però, segue una fase di gestazione che in genere dura fintanto che la poesia non viene pubblicata. Quando non ho l’ispirazione per una nuova poesia, mi dedico alla limatura di quelle già scritte. Per cui probabilmente è un rituale preceduto da un gesto istintivo.»

Come è nata e come si è sviluppata l’idea dell’opera con cui hai partecipato alla prima edizione del Premio Città di Asti?

«“6090(SessantaNovanta)” è un libro nato durante un periodo della mia vita in cui non ero soddisfatto di quanto facevo. La sua gestazione è durata circa 3 anni durante i quali ho cercato di evadere, come il protagonista, da una situazione di blocco esistenziale. Contemporaneamente ho portato avanti una ricerca sull’utilizzo del verso, sulla sua sonorità e sul suo posizionamento nella pagina scritta. Quando ho terminato di assemblare il libro e ho dovuto cercare il titolo, ho pensato che il numero del cartellino che dovevo timbrare ogni giorno sul luogo di lavoro fosse quello adatto. Il libro è stato poi premiato in un concorso organizzato dalla casa editrice “Il Convivio” e successivamente pubblicato. Nello stesso periodo anche la mia situazione personale è voltata al meglio, avverando l’auspicio di evasione contenuto nel libro. Quando si dice che letteratura e vita si intrecciano.»

Come hai vissuto la partecipazione al concorso e cosa ha rappresentato per te il riconoscimento ottenuto?

«Ho partecipato quasi per caso al concorso. Ho degli amici a Canelli e quando ho visto la pubblicità del concorso ho pensato a loro e mi sono iscritto. Il destino sceglie sempre strade contorte per attuare i suoi progetti. Prima di rispondere alla seconda parte della domanda devo premettere che questo libro è tra quelli che mi hanno dato maggiori soddisfazioni, avendo ottenuto quattro podi e molte menzioni. Però non aveva mai ottenuto un primo premio. Quindi l’annuncio di aver vinto Il “Premio Letterario Città di Asti” mi ha riempito di infinita gioia. Soprattutto per il libro. L’unico profondo dispiacere è stato quello di aver avuto la notizia per telefono da un mio amico che sono stato costretto a delegare. Sfortunatamente mi risultava impossibile conciliare gli impegni di lavoro con la data della premiazione. Dal vivo penso che l’emozione sarebbe stata ancora maggiore. Comunque, dopo la notizia, ho brindato in famiglia con un ottimo spumante di Asti.»

FRANCO FILICE, Secondo Classificato nella sezione Poesia edita

La silloge poetica “La neve in tasca” – Oedipus Edizioni, racconta in versi esperienze di vita, di fusione di radici, personali e letterarie, che da valori di stabilità diventano al contempo strumento di apertura e allontanamento dai luoghi rassicuranti e familiari. È così che il poeta, con un pugno di neve in tasca che si scioglie a ogni suo passo, evapora nei suoi versi, fra rarefatte caligini, una sapienza acquisita che lo innalza in un volo sempre più leggero, vagando con i suoi occhi meravigliati “in una galassia remota/ che riluce di altri colori.”

Ci racconti, in poche parole, chi è Franco Filice e cosa significa per te scrivere?

«Scrivere per me è uscire dalla comfort zone della vita quotidiana con tutta la sua routine e le sue prevedibilità ed esplorare nuovi mondi e nuovi modi di essere. Insomma cercare di travalicare l’orizzonte. L’approccio alla scrittura mi è stato facilitato dal mestiere che faccio, il traduttore letterario, che è una forma di “scrittura per conto terzi”.»

Che tipo di lettore sei e quali autori influenzano la tua scrittura?

«Nella mia vita sono stato e sono tuttora un lettore onnivoro. Da laureato in Germanistica ho evidentemente privilegiato la lettura di lingua tedesca, appassionandomi in particolare a Kafka e Brecht. Ma penso che la mia scrittura sia debitrice non solo ad altre letterature, come quella russa, per esempio, a Marina Cvetaeva, Anna Achmatova, Majakovskij, per quanto riguarda la poesia, a Dostoevskij e Gogol nell’ambito della narrativa. Va da sé che sono un appassionato della letteratura italiana del Novecento in particolare: Calvino, Pasolini, Pavese, Ungaretti, Montale, Moravia… Un autore che ho apprezzato incondizionatamente è sicuramente Fernando Pessoa rispetto al quale avverto una chiara affinità legata alle tematiche esistenziali. Ma la mia scrittura è frutto anche di passioni extra letterarie che ho coltivato negli anni: dal cantautorato genovese (De Andrè, Tenco…), passando per i testi e le musiche delle Orme e del Banco del Mutuo Soccorso per arrivare alla malinconica poesia cinematografica di un Angelopoulos o di un Kiarostami.»

La scrittura per te è un rituale o un gesto istintivo che nasce da una improvvisa ispirazione?

«Per me la scrittura scaturisce da un’improvvisa ispirazione. Mi capita talvolta di svegliarmi di notte con un’immagine, una visione, una parola, un aggettivo particolarmente pregnante. In questi casi afferro subito lo smartphone per non perdere l’ispirazione del momento, prendo un appunto vocale e il giorno dopo procedo alla stesura.»

Come è nata e come si è sviluppata l’idea dell’opera con cui hai partecipato alla prima edizione del Premio Città di Asti?

«Ho partecipato alla prima edizione del Premio Città di Asti perché istintivamente mi ha ispirato. Non saprei spiegare razionalmente perché. Forse perché è la città di Paolo Conte

Come hai vissuto la partecipazione al concorso e cosa ha rappresentato per te il riconoscimento ottenuto?

«Purtroppo non ho potuto partecipare di persona al concorso, neanche alla cerimonia conclusiva, e me ne rammarico. Il riconoscimento ottenuto per me è molto importante perché finora è il più prestigioso riconoscimento che la mia raccolta poetica “La neve in tasca” abbia ottenuto. Di questo sono naturalmente molto grato alla giuria per averne riconosciuto il valore letterario

ROBERTO CASATI, Terzo Classificato nella sezione Poesia edita

“Appunti e carte ritrovate” – Guido Miano Editore, è il canto moderno dell’uomo messo a nudo dinanzi alla forza penetrante e conturbante di Eros, di una potenza che spiazza, confonde, ma sempre attira a sé. Al centro il cuore del poeta, scosso dai tumulti di onde ora violente ora quiete, da quel mal d’amore (di vita) che coglie nel mare sconfinato in tempesta, dove il cuore ogni volta si perde come quando il poeta confessa: “non resta che amarti (…) adesso che vorrei, più di prima, / accarezzare il profilo delle isole / e accompagnarti verso il naufragio…”

Ci racconti, in poche parole, chi è Roberto Casati e cosa significa per te scrivere?

«Mi sono interessato da sempre di poesia, pur non avendo fatto un percorso scolastico che prevedesse studi classici. Sono un informatico della prima ora, quelli per intenderci che avevano il dominio assoluto sulle parole “elaborazione dati” e che in azienda venivano visti come degli stregoni. Detto questo mi è sempre piaciuto scrivere, ho iniziato con piccoli racconti e quasi subito sono passato alla poesia. Scrivere è un’esigenza, anche quando per circa quindici anni non ho pubblicato, ho sempre scritto, o forse cercato di scrivere cose che non sempre mi hanno soddisfatto.»

Che tipo di lettore sei e quali autori influenzano la tua scrittura?

«Sono un lettore appassionato, negli ultimi anni sto veramente leggendo molto, opere di autori affermati e riconosciuti ma anche molte opere di autori conosciuti solo nella ristretta cerchia dei cultori di poesia. Nel tempo gli autori che più mi hanno influenzato sono stati certamente Cesare Pavese e Pablo Neruda, personaggi con poetica molto distante una dall’altra ma egualmente importanti e fondamentali nella mia ricerca. Tra gli autori contemporanei Paolo Ruffilli è quello che più mi ha influenzato nel modo di scrivere che per me deve essere il più asciutto possibile. Sono d’accordo con lui quando dice che la poesia è l’arte del togliere, arrivando alla concisione senza per questo sconfinare in un anacronistico ermetismo.»

La scrittura per te è un rituale o un gesto istintivo che nasce da una improvvisa ispirazione?

«La scrittura poetica per me è atto che partendo dall’ispirazione (uno sguardo, un evento, una frase letta, un sentimento che prende il sopravvento) richiede poi un rituale fatto di applicazione, ricerca, lavoro di approfondimento, definizione, ricerca del verso e nel verso delle singole parole. A volte è anche fatica.»

Come è nata e come si è sviluppata l’idea dell’opera con cui hai partecipato alla prima edizione del Premio Città di Asti?

«Ci arrivo ma prima racconto un po’ la mia storia. Nel 1984 ho pubblicato il mio primo libro “Amore e disamore”, il cui inedito è stato premiato con una segnalazione l’anno precedente da una giuria presieduta da Carlo Bo (Premio Spiaggia di velluto), critico di fama nazionale e che Giorgio Barberi Squarotti e Franco Piccinelli hanno considerato favorevolmente. Nel 1986 è uscita la raccolta “Roma e Alessandra” per le Edizioni Tracce di Pescara, il cui inedito è stato segnalato a Roma da una giuria presieduta da Maria Luisa Spaziani, avendo in seguito vari riconoscimenti. Incoraggiato da Paolo Ruffilli, poeta e critico dei più conosciuti, ai tempi direttore editoriale delle Edizioni del Leone, ho pubblicato la trilogia del viaggio composta da “Coincidenze massime” (1988), “Ipotesi di fuga” (1992) e “In navigazione per Capo Horn” (1999), che hanno ottenuto unanime consenso di critica. Negli anni 2000 ho pubblicato alcuni testi in antologie e della mia opera si è interessato soprattutto Guido Miano Editore, proponendomi nel 2016 una raccolta antologica delle mie opere con note critiche pubblicata con il titolo “Carte di viaggio”. E arriviamo a parlare di “Appunti e carte ritrovate” pubblicato ad ottobre 2020 da Guido Miano Editore. Questa raccolta è frutto di una ricerca di parole, frasi, pensieri scritti in più di 30 anni (tra il 1988 e il 2020). Ricerca fatta nel periodo di lockdown di marzo/aprile dello scorso anno, quando quella situazione ha colpito profondamente la nostra anima e mi ha spinto a fermarmi, riprendendo pensieri e parole, fino a renderle più profondamente grezze, forti da colpire il cuore. Questa raccolta rimarca il senso della mia ricerca poetica che si racchiude tutta nel “viaggio”. Viaggio che è soprattutto interno, viaggio dell’anima nell’anima, fatto di emozioni, carezze e segreti tutti da svelare alla donna amata.»

Come hai vissuto la partecipazione al concorso e cosa ha rappresentato per te il riconoscimento ottenuto?

«Quando ho trovato sul web il bando relativo al Premio Città di Asti ero un po’ restio a partecipare, perché la prima edizione di solito si porta dietro un parterre di partecipanti non particolarmente qualificati, magari qualche problema organizzativo, forse una cerimonia finale che non è particolarmente seguita. Poi ho deciso per la partecipazione e devo dire che nessuna delle mie remore si è dimostrata fondata. I partecipanti erano di primo livello, l’organizzazione è stata perfetta e la partecipazione all’evento finale è stata ottima. Per quanto mi riguarda, personalmente sono felice del riconoscimento che ho ricevuto, perché mi ha dato conferma che il mio ritorno alla pubblicazione aveva un senso, che quello che avevo da dire e che ho pubblicato ha avuto un seguito. Il libro ha ricevuto una dozzina di premi da podio e una trentina tra segnalazioni e menzioni. Molte sono le recensioni pubblicate su varie riviste e blog letterari, tra questi segnalo “Menabò online”.»

ELEONORA ROSSI, Prima Classificata nella sezione Poesia inedita

 

L’inedita silloge “Testamento del mare” presenta una poetica dallo slancio emotivo dotato di essenzialità espressiva che si avvale di immagini vivide, marine, estive, al confine dell’autunno, metafore di una esistenza fugace, dal moto incontenibile, così come recita un verso: “prova tu/a essere/un mare/senza onde.”

 

Ci racconti, in poche parole, chi è Eleonora Rossi e cosa significa per te scrivere?

«La scrittura per me è una lacrima: scioglie i nodi interiori, libera. La scrittura è la mia voce senza filtri, corpo e anima insieme. Sono arrivata alla parola poetica dopo diverse esperienze di scrittura, dal giornalismo al saggio critico, e ho constatato come il linguaggio razionale, da solo, mostri un limite: non riesce a spiegare quello che si può unicamente sentire.»

Che tipo di lettrice sei e quali autori influenzano la tua scrittura?

«Tra i poeti che sono entrati a far parte della mia biblioteca interiore metterei al primo posto Giuseppe Ungaretti e accanto a lui Giovanni Pascoli, Antonia Pozzi, Eugenio Montale, Corrado Govoni, Salvatore Quasimodo. Sono voci poetiche nelle quali sento verità, capacità di mettersi a nudo e di testimoniare. I loro versi sono inattaccabili. Tra i narratori ho sempre amato Tolstoj e Dostoevskij, la loro capacità di scavare nell’animo umano e di raccontare l’indicibile; per la stessa ragione ammiro scrittrici coraggiose come Delphine De Vigan.»

La scrittura per te è un rituale o un gesto istintivo che nasce da una improvvisa ispirazione?

«Per me scrivere è un gesto istintivo, naturale, una sorta di reazione ‘a pelle’. Mi piace stare in ascolto e porto sempre con me un taccuino, perché le parole mi vengono incontro, a volte scivolano senza preavviso in una giornata incolore, illuminandola. Se non le trascrivo immediatamente, sono perdute.»

Come è nata e come si è sviluppata l’idea dell’opera con cui hai partecipato alla prima edizione del Premio Città di Asti?

«Ho composto Testamento del mare a partire dal 2020, in un periodo che non potrò scordare perché credo che la pandemia abbia messo alla prova ognuno di noi. In quei mesi ho perso mia madre e da lì a poco una delle mie amiche del cuore, Isa, alla quale ho dedicato la silloge. Testamento del mare è un discorso aperto con l’esistenza, con l’infinito. Il mare diventa una persona da ascoltare, alla quale chiedere risposte; sulla linea dell’orizzonte la schiera degli ombrelloni chiusi sono «puntati in fila a giustiziare il cielo», come un plotone d’esecuzione. Perché in questa silloge ho tentato di raccontare l’inquietudine del vivere, il destino di ogni essere mortale, ma al tempo stesso l’anelito a lasciare una traccia, sia essa soltanto una parola o un battito nel cuore di chi abbiamo amato. Il Testamento del mare è scritto su pagine di terra, la terra che mi è madre: le mie radici sono piantate nella pianura ferrarese, tra zolle allattate dalla nebbia. Il libro è una sorta di invito a scoprire nel vuoto la pienezza del vivere; a imparare dalle onde e dalla nebbia la legge dell’universo: l’impermanenza. Molti dei componimenti sono una riflessione sulla morte, che quando ci sfiora ha il potere di farci amare ogni minuscola fibra della vita: dal respiro all’intima felicità di “abitare una lacrima”.»

Come hai vissuto la partecipazione al concorso e cosa ha rappresentato per te il riconoscimento ottenuto?

«Il 29 gennaio 2023 resterà per me una giornata indimenticabile: ero partita con poche aspettative perché essere tra i sei finalisti per me rappresentava già un traguardo. La cerimonia è stata magnifica, grazie alla giuria appassionata e alla voce unica del cantautore Andrea Crimi. Un’atmosfera di attesa e di trepidazione che per me si è rivelata un crescendo (e poi un cortocircuito) di emozioni: il mio nome è stato pronunciato per ultimo, alla fine della premiazione, e non sono riuscita a trattenere le lacrime per la gioia. Il premio è stata anche l’occasione per conoscere Asti, che non avevo mai visitato, una città raccolta, preziosa, una perla di arte e di cultura. Il riconoscimento ottenuto per me è davvero importante: una giuria di professionisti ha creduto nelle mie parole e ha scelto di pubblicarle. Sono profondamente grata per questo premio, che mi onora e dà un profondo valore al mio scrivere.»

Per la fine dell’anno è prevista la pubblicazione da parte di Letteratura Alternativa Edizioni di una antologia contenenti i brani della sestina dei finalisti della Prima Edizione del Premio Letterario Città di Asti.