La pioggia scrosciava ritmicamente allo smottamento delle tegole sulla sommità della vecchia casetta in pietra di campagna. “Il tetto va riparato”, aveva detto mio nonno con sguardo inflessibile, accentuando il tono ruvido della voce prima che mi rifugiassi nella decadente e sperduta abitazione rocciosa. Dopo quelle parole, non aveva voluto più parlarmi. Così, vedendolo arrivare nella sua vecchia Ape 50 dalla scrostata vernice turchese tenue, che sballottava su per i sassi lanciando per aria schegge di ghiaia mentre si ingolfava nei tratti di terreno bagnato, mi ero immediatamente allarmato. Ero allora corso ad accoglierlo sotto l’ombrello sgangherato, tirato fuori con urgenza dal vecchio portaombrelli rivestito in rame blister, dimenticato nell’angolo dell’ingresso da sempre, almeno così ricordavo. Dopo aver sbatacchiato l’instabile portiera del vecchio catorcio, senza lanciarmi ancora alcun saluto, allontanando con un gesto brusco l’ombrello che gli porgevo e lasciando che la pioggia gli inzuppasse i radi capelli bianchi, aveva scoperchiato il telo tenuto fermo dalle sdrucite corde elastiche che avvolgeva il lungo pianale, tirandone fuori un vecchio fiasco di vino impagliato e una sporta che conteneva, senza ombra di dubbio, roba da mangiare.

“Vigna piantata da me, gelso da mio padre, olivo da mio nonno”, con questo detto tatuato sul cuore ero cresciuto tra paese e campagna, con la parentesi da pendolare nel capoluogo pugliese durante gli anni universitari. “Dottore in lettere, auguri!” mi avevano detto i parenti intervenuti alla seduta di laurea nel torrido pomeriggio di fine giugno, stampandomi schioccanti baci di orgoglio. “E adesso chi gliele darà le ripetizioni di italiano ai miei figli, se tu sarai impegnato a insegnare?” si era lamentata la vicina di casa. “Stai tranquilla, Ninetta, non lavorerò così presto, avrò tutto il tempo per dare ancora ripetizioni”, avevo risposto prontamente. Sapevo che tutti si aspettavano che imboccassi la strada dell’insegnamento. “Un posto statale, fisso e ben retribuito”, mi ricordava sempre mia madre, ma non avevo mai avuto il coraggio di confessarle che per poter insegnare mi sarebbero voluti ancora anni di studio e, soprattutto, altre tasse da pagare. Non bastavano più anni di studio e il fatidico pezzo di carta, adesso bisognava specializzarsi seguendo una serie di percorsi formativi, sostenere un esame finale e, solo se superato, poter essere ammessi alle graduatorie provinciali dei docenti. A me piaceva studiare da sempre. Ricordo che sin da bambino sparivo per ore da casa o in campagna, ma nessuno si preoccupava di cercarmi, sapevano tutti che ero in giro sulle panchine dei solitari giardini del centro storico o arrampicato su qualche albero a leggere e che sarei tornato con i miei pesanti libri sotto il braccio, l’espressione corrucciata e lo sguardo assorto. La Storia per me era importante, proprio come mio nonno mi ripeteva in campagna frantumando le aride zolle fra le mani. “Vedi Lucio, queste sono le nostre radici. Siamo terra, dura e fragile. Testardi come muli noi gente del Sud, ma dal cuore tenero.” E subito partiva con i suoi racconti della dominazione bizantina dei luoghi, portandomi via dal centro abitato per raggiungere la necropoli ai piedi del sito archeologico dell’antica zona di Petra Magna ed entrare nella cripta rupestre del Padre Eterno nella cui unica navata erano stati rinvenuti affreschi risalenti al XII secolo. “Eravamo schiacciati un po’ dall’Impero d’Oriente e un po’ dall’Impero di Occidente, ma ad avere la meglio erano sempre i Saraceni in quel periodo, avevano via libera in queste terre e così abbiamo preso pure da loro.” “Ma tu nonno, come le sai tutte queste cose, se a scuola non ci sei andato?” “Da Don Mimmo le ho imparate. Da piccolo scappavo sempre nella chiesa perché Don Mimmo era bravo con i bambini, ci dava da mangiare e poi ci raccontava la storia del paese. Mia madre mi picchiava quando rientravo, perché avevo lasciato i fratelli piccoli in casa da soli mentre lei era in campagna ad aiutare mio padre, ma io volevo sapere sempre come andavano a finire le storie di Don Mimmo.” Erano quelle le rare occasioni in cui vedevo attraversare un bagliore di allegria nel suo sguardo. Non riuscivo a immaginarmelo bambino. Da quando lo conoscevo, la sua espressione era sempre stata seria e severa, al punto che da piccolo mi ero convinto che mio nonno fosse nato già con la faccia da adulto.

Ero rientrato da circa tre settimane dalla Germania, dove avevo servito caffè e coni gelato ai clienti di un bar situato in un piccolo centro commerciale. Correvano tutti, dalle prime ore dell’alba a sera, un viavai continuo di piccole teste che diventavano tanti puntini sovrapposti uno sull’altro quando mi affacciavo alla ringhiera del piano in cui lavoravo. “Schnell! Schnell!”, mi urlavano alle spalle appena mi concedevo alcuni attimi di pausa, durante i quali la mente volava ai versi dedicati al natio borgo:

“… allora
Che, tacito, seduto in verde zolla,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna!”

In quella città dove non riuscivo a vedere mai spuntare il sole, rinchiuso per ore nell’affollato centro commerciale, sentivo solo il fastidioso gracidio di frasi esortanti al lavoro incessante. Dai lunghi pomeriggi in cui non contavo mai le ore, chino sui libri di scuola, al suono assillante della sveglia alle prime luci dell’alba, dal profumo della carta stampata invecchiata degli antichi tomi della biblioteca, all’aroma dei fondi del caffè bruciato, dal principio aristotelico che il meraviglioso è essenziale alla poesia epica, al principio di realtà di un’epopea che non prometteva imminenti sbocchi di riuscita professionale. Mi ero illuso che avrei imparato presto il tedesco e sarei riuscito a iscrivermi al dottorato di ricerca sulla poesia romantica, come mi aveva accennato il professore col quale avevo discusso la tesi. Ma il suono aspro, rauco e gutturale di quella nuova lingua mi impediva di concentrarmi sulle innumerevoli regole grammaticali, appesantendo il mio stato d’animo che desiderava solo volare via, e in fretta, da quel posto. “Il tempo di alcuni mesi e poi torno”, avevo detto agli amici e ai parenti che erano venuti a salutarmi con abbracci sconsolati. Quando qualcuno della famiglia parte, è sempre un dispiacere sapere che non lo si incontrerà da un momento all’altro per le strade del paese o in occasione dei magnifici conviti, è sempre uno strappo al cuore lasciare andare via una parte di te. Ma sarebbe stato per poco. E invece io lì ci avevo trascorso quasi tre anni, facendo ritorno di rado e in gran discrezione, proprio per evitare gli assalti dei parenti nei pochi giorni di permesso a disposizione. Il tedesco alla fine lo avevo imparato, ma il dottorato non lo avevo mai iniziato. Mi ero fatto crescere la barba, folta, ispida e nera come quella che un tempo portava con orgoglio mio nonno, e avevo perso alcuni chili. Divorato dall’ansia per il futuro incerto, assalito dal timore di non arrivare mai a fine mese perché le spese dell’affitto lievitavano ogni anno, avevo fatto finalmente rientro a casa fiacco nell’animo, ma con un barlume di speranza ancora vivo nello sguardo. Avevo subito fissato l’appuntamento con il professore che in quegli anni mi aveva inviato appunti da tradurre per le sue pubblicazioni. La sua rapida stretta di mano e le parole incerte mentre tentava di incoraggiarmi verso l’insegnamento, mi avevano impedito di insistere con la richiesta per il dottorato. Non so dire bene se si era trattato di delusione o di disincanto, ma uscito dal palazzo dell’Ateneo avevo attraversato a passi rapidi e nervosi la prima parte dei giardini non recintati di Piazza Umberto I, scansando con fare irritato i passanti che lungo il viale pedonale si attardavano presso le aiuole a chiacchierare comodamente, prima di raggiungere Via Sparano e lanciarsi nelle compere. Ignaro di quanto accadevo intorno a me, mi ero ritrovato davanti alla facciata principale, bicolore, del Teatro Petruzzelli in Corso Cavour. Alzando lo sguardo verso la struttura che la città aveva atteso a lungo prima di vedersela restituire nel suo nuovo splendore, avevo cominciato a imprecare. Mi avevano insegnato che la pazienza è la virtù de forti, e invece adesso scoprivo che la pazienza mi aveva ingannato. Tornato al paese, avevo raccolto poche cose e avevo annunciato con tono deciso che mi sarei trasferito per un po’ di tempo in campagna, da solo.

Gli ulivi là fuori, con i loro tronchi dalle forme spiralate che parevano anime dannate ammucchiate l’una sull’altra, inginocchiate a implorare perdono perché più bell’inferno non c’è in una terra dove “nel golfo c’è puzza di zolfo, che sta arrivando il demonio” e le zolle del terreno dure e solide sotto i piedi, mi riportavano alle giornate di sole e di raccolta degli autunni del sud, quando il sole acceca ancora a mezzogiorno e il vociare degli operai, reperiti tra parenti sempre disponibili e amici alla ricerca di qualche fusto di zinco per la scorta annuale, addolciva la stanchezza della levataccia alle prime ore dell’alba con la sua brezza pungente. Era un rito la raccolta delle olive. Mio nonno me lo rammentava in continuazione che l’olio è sacro sin dall’antichità. “Non solo nutre e impreziosisce gli alimenti” asseriva saggiamente “ma l’olio serve ad ardere il lume che ci tiene svegli al buio, ricordalo nipote mio.” E ancora: “L’olio cura. Se metti un rametto di ruta nel vasetto pieno d’olio, questa sprigionerà i suoi poteri e allontanerà i vermi dal tuo ventre.” Poi a primavera, il sabato precedente alla domenica delle palme, mia madre si faceva portare dalla campagna una sacca di rametti di ulivo per decorarli d’oro e d’argento. “Così la casa risplende di pace”, m diceva mentre me li porgeva al mattino prima di recarci insieme alla Messa. “Adesso li facciamo benedire e staremo tutti in grazia di Dio.” E in quel sorriso vedevo risplendere l’autentica gioia che solo le parole di una madre sanno trasmettere. Tra le sue braccia, robuste e solide come i tronchi di un ulivo, trovo riparo ancora oggi che sono diventato un uomo. “Nessuno ti capisce meglio di una madre” mi sussurrava ancora all’orecchio quando andavo a trovarla e, prima di accomiatarmi da lei, aspettavo l’ennesima raccomandazione urlata dalla finestra: “Copriti la gola, che la sera scende l’umidità.” E, accarezzandomi il collo, le lanciavo un bacio dal portone, poi abbassavo lo sguardo sul lastricato fuori dall’arco dove avevo già mosso i passi a grandi falcate. Il centro storico a sera era ormai gremito di passanti, specie in estate, dove i turisti si accalcavano in visita agli scorci suggestivi declamati ormai dalle agenzie viaggi e dalle assillanti pubblicità in televisione. Tutti pazzi per la Puglia, da qualche anno i turisti giungevano dalle varie regioni d’Italia, persino da quelle limitrofe meridionali. Le inflessioni dialettali si mescolavano per le strade in una Babele assordante che si acchetava solo alle prime luci dell’alba.

La prima volta che mio padre mi aveva portato a raccogliere le olive, avevo sei anni. “Ti devi alzare presto, Lucio, domani mattina.” “Quando è ancora buio, papà?” Sì, quando è ancora buio.” “Ma come facciamo a camminare se non si vede ancora il sole?” avevo chiesto spaventato. Sotto la fioca luce della lampadina elettrica penzolante dal soffitto sverniciato dell’angusta cucina del vecchio appartamento che condividevamo con i nonni, avevamo consumato una ricca colazione di pane e pomodoro e mio padre aveva anche mandato giù un bicchiere di primitivo dell’anno precedente, quello nuovo non era ancora pronto. Avevo fatto fatica a mangiare così presto, quella mattina, gli occhi ancora stropicciati dal sonno e la paura del buio mi impedivano di credere, così come mi aveva detto mio padre sere prima, che mi sarei divertito a raccogliere le olive. Pensavo a come avrei fatto ad arrampicarmi sull’instabile scala di legno sulla quale mio nonno saliva con grande agilità. Mia madre lo rimproverava, urlandogli che prima o poi sarebbe caduto rompendosi il femore, ma lui rideva dicendo che a lui neanche il diavolo lo voleva! Quando mio padre mi aveva messo tra le mani un lungo rastrello dal manico di legno, mi ero tranquillizzato. “Dovrai recuperare tutte le olive cadute intorno agli alberi.” “E chi le ha buttate tutte le olive a terra?” Mio padre mi aveva dato un piccolo buffetto sulle guance “Te le buttano le donne con i bastoni”. E così alle prime luci dell’alba la campagna era tutto un echeggiare di tonfi e battiti, di urla e scalpitii infervorati. Mio padre e mio nonno si alternavano sulla scala, mia madre e le zie battevano colpi furiosi ai rami, i miei cugini più grandi stendevano la rete sotto gli alberi e io mi affannavo a raccogliere i frutti caduti all’esterno con ampie bracciate. Non era stato facile capire come impugnare il rastrello, il manico era troppo lungo per me e la forca di ferro troppo pesante. Ma non avevo mollato e, con la fronte imperlata di sudore, fino a mezzogiorno avevo contribuito a riempire dodici sacchi di tela. “Stasera poi, a casa, mi aiuterai a dividere i rametti dalle foglie” mi aveva sussurrato all’orecchio mio padre con una risatina accompagnata da un’espressione di soddisfazione. Io avevo allora lanciato un’avida occhiata alle mani untuose che mi facevano già assaporare il profumo del liquido prezioso che impregnava le pareti del “trappit”. Immaginavo che di notte il frantoio si riempisse di vapore a porte chiuse dopo la molitura pomeridiana, quando entrandovi l’aroma intenso inebriava le narici.

Il rombo scoppiettante del motore del vecchio catorcio guidato con imprudenza da mio nonno mi aveva bruscamente distolto dai ricordi nostalgici in cui mi avvolgevo in quel freddo pomeriggio autunnale. Circondato dalle pareti di pietra secca, dove i pensieri volavano fino al soffitto conico e la luce durante il giorno filtrava a intermittenza dalle chiancharelle sgangherate, mi sentivo un feretro in decomposizione nell’antico monumento funerario miceneo.

“E così ti sei nascosto nella casidde” con queste parole mio nonno aveva rotto il silenzio di settimane. Mia madre aveva mandato uno zio e un cugino per provare a convincermi a rientrare al paese, che mi avevano detto: “Perfino nonno Angelo è arrabbiato con te, dice che sei nu ‘mbam.” Quella parola, infame, mi aveva profondamente colpito nell’orgoglio. Era vero, ero fuggito dalle mie responsabilità e non era da me, ma che ne sapevano loro dell’inferno che avevo dentro? Mi sentivo messo alla gogna dalla vita che come un giudice inflessibile faceva prendere a sassate i miei vecchi sogni, un inetto perseguitato dal senso di colpa per non riuscire ad adeguarsi alla realtà … un infame per non voler uscire allo scoperto.

Nonno Angelo si scalda le mani emanando calore con la bocca. “Fasce fridde qua dentro, siamo a fine ottobre, ormai” continua poi adagiandosi sulla branda bassa e traballante. “Al paese hanno acceso il riscaldamento, ormai”, poi mi fissa a lungo negli occhi. Lotto contro la tentazione di non riuscire più a sostenere quello sguardo duro, come succedeva da bambino quando mi apprestavo a subire un suo rimprovero severo. “Lucio te ne devi andare da qui.” “Non ho ancora freddo, nonno.” “Non hai capito, te ne devi andare dalla Puglia! Non è più posto per te, questo.” Le sue parole mi trafiggono come il coltellino che portava sempre in tasca durante le nostre passeggiate sotto il sole cocente alla ricerca di more e che usava per tranciare le sterpaglie che impedivano il cammino. Le sento le ferite che si aprono, che bruciano, pungono come le spine di un rovo nelle mie carni. Le ginocchia non reggono, il nodo alla gola comincia a salire, mi soffoca e risale liquefacendosi agli occhi. “Quel dottorato a Tubinga, tu lo devi fare!” e così dicendo si alza bruscamente e mi scrolla per le spalle con vigore. “Devi dire a quei tombaroli ‘mbam di stranieri che ci hanno sempre portato via i reperti più belli, che noi siamo orgogliosi della nostra terra, che noi la amiamo questa terra, anche se siamo costretti a lasciarla…” E solo allora si riaccascia sulla branda, che dal cigolio che emette sembra gemere assieme a noi. Guardandolo stranamente così inerme, tento di riprendere il controllo delle mie emozioni e faccio qualche passo verso di lui. Come ramo di ulivo piegato dal tempo, mi inginocchio davanti a lui e gli accarezzo le mani ruvide, la pelle dura come le zolle là fuori d’estate, e me le porto alle labbra. Sanno di fatica, ma anche di orgoglio, quello che non si spezza. Voleva studiare, nonno Angelo, come me, ma non lo ha potuto fare, la vita non glielo ha permesso. Ma lui la vita non l’ha tradita, l’ha attraversata a testa alta, da amorevole patriarca dal tronco resistente che trae vigore dalle sue radici profonde. “I semi non si piantano solo nel terreno, vengono trasportati anche dal vento, lontano, e fioriscono lo stesso, più forti, dopo il lungo viaggio.” E così adagio il capo tra le sue ginocchia, chiudo gli occhi abbozzando il sorriso di un bambino, e inizio a sognare la mia nuova vita a Tubinga.