Il sogno finisce all’improvviso di Massimo Colonna. Sulla fragilità della verità

Edito da Letteratura Alternativa Edizioni, “Il sogno finisce all’improvviso” del giornalista ternano Massimo Colonna è un libro che, attraverso la tematica della relazione padre-figlio, induce a riflettere sulla realtà di tutti i giorni che affrontiamo sempre più smarriti; un libro che parla al lettore con uno stile a tratti visionario, che rivela quanto del simbolismo mitico psicoanalitico c’è dietro a ogni legame familiare.
Mi è capito recentemente, durante la visita presso la pinacoteca del Palazzo della Pilotta a Parma, di soffermarmi nella visione di un dipinto dell’artista reggiano Antonio Allegri, meglio conosciuto come Correggio.
Si tratta di un quadro che ritrae la Sacra Famiglia, in cui, come riportato dal commento all’opera, la figura di San Giuseppe viene risaltata da uno sguardo attento e premuroso verso il figlio. Ho subito pensato che in realtà ancora oggi si tende più facilmente ad associare occhi vigili verso la prole, più alla figura materna che a quella paterna. Eppure oggi i padri sono più presenti nella vita dei propri figli, molti di essi si sostituiscono ai doveri materni in casa e nella vita sociale della famiglia. Un giusto passo avanti (se così lo si vuole considerare) che va legittimamente riconosciuto. Un padre, come una madre, sente il peso della responsabilità verso il proprio figlio; un padre, come una madre, prova sentimenti di paura e smarrimento; un padre, come una madre, si pone continuamente assillanti interrogativi sul suo ruolo di genitore. Ecco che ho ripensato a un libro letto poche settimane prima, in cui la vicenda si snoda proprio attraverso l’indagine del rapporto Padre-Figlio. Partendo da una drammatica vicenda familiare, la trama si allarga a una analisi socio-antropologica sempre più intrigante, seppure la narrazione resti pervasa da un terrificante dolore, quello dell’assenza che solo chi non riesce a comunicare può percepire. La trama de “Il sogno finisce all’improvviso” è scarna, ma non per questo poco interessante: un uomo entra in una chiesa per parlare con un prete sul dolore-vaneggiamento per la morte del proprio figlio; l’ambientazione, teatrale, a tratti ricorda lo stile dell’assurdo di Ionesco e Beckett. Le diverse versioni della verità sono non-verità Nella storia che racconta il giornalista Colonna è possibile ravvisare lo spaccato della realtà contemporanea, in cui siamo, ormai, tutti ossessionati dal calcolo, maniaci del controllo. Ma quando la realtà, proprio quella che si cerca dannatamente di tenere sotto continua verifica, ci sorprende, allora cadiamo nel baratro dell’ansia e del sospetto. Cosa è andato perso, cosa abbiamo sbagliato, proprio noi artefici diretti delle nostre azioni? Oggi viviamo in questa trappola dell’ispezione. Quando tutto ci è dato sapere, quando tutti conosciamo tutto e tutti, allora teniamo ben tese le redini della nostra vita. Non più sguardo all’insù verso il cielo, non più udito schiuso all’eco che rimanda la natura che ci circonda, non più mani realmente tese verso chi ci circonda. Siamo presenti, ma in realtà siamo tutti assenti, rapiti dai nostri continui e assillanti vagheggiamenti. A volte arriviamo al punto di isolarci, pur avendo la rubrica del telefono intasata di numeri di cosiddetti amici, perché a volte quel troppo dolore che ci teniamo dentro sappiamo bene che rischia di distruggerci se lo tiriamo fuori. Ma se non lo facciamo, allora rischiamo che il buio della notte ci ingoi, e allora sì che la luce del mattino, noi vigili sentinelle, rischieremmo di non vederla più sorgere per davvero. Allora ecco che i sogni vengono in soccorso, proprio quando la realtà ci parla solo attraverso un linguaggio già tutto codificato. I sogni che spesso non riusciamo a capire ci perseguitano, fino a quando non siamo pronti a percepire che vogliono solo dirci qualcosa, essendo ormai disabituati a cogliere segnali diversi da quella che crediamo essere ormai la nostra realtà. Ed è in quel momento che riscopriamo il silenzio, come quello che c’è nell’antro sacro della navata in una chiesa. Tutto quel silenzio disorienta i nostri sensi e nella guida che vuole ascoltarci facciamo fatica a riconoscere la scintilla di una speranza, noi che oggi non crediamo, incapaci di vedere e sentire realmente. “La prego, non cerchi il Maligno in tutte le cose. C’è anche Gesù. Insomma, io glielo posso garantire” dice il prete alla moglie del protagonista.
Quel Dio che non riconosciamo più in tutte le cose non si è nascosto, resta sempre Padre-Creatore di tutte le cose che noi, con il nostro sguardo scientifico e indagatore, non vediamo più vive.
Siamo parte di mini-microcosmi in cui ci rifugiamo, incuranti di appartenere a un più elevato macrocosmo che ha da dirci tanto altro. Siamo piccole cellule solitarie in una moltitudine di voci e rumori. La donna, smarrita nel delirio di cui suo marito è vittima, continua: “Padre. La sua storia… vede… parte tutta dal suo rapporto con Dio.”
Il Padre risponde:
“Tutte le storie, mia cara, partono da Dio.”
Si parte dal padre, specie quando padre lo si diventa per davvero.
Essere guida, sostegno e riferimento è così disorientante. Chi ci ha preceduto ci ha davvero lasciato la mappa per orientarci? Confusi e spesso disadattati, i genitori di oggi arrancano al buio e i dubbi diventano macigni. Ma non per questo tutti i padri vanno puniti, non per questo occorre essere severi con noi stessi perché solo quando riconosciamo l’essere (umano) fragile che è in noi possiamo essere pronti ad attraversare il buio e ritrovare la luce che credevamo non potesse più spuntare. E in quel tenebroso dedalo in cui ci smarriamo torniamo a un antico legame che crediamo dimenticato, ritrovandoci figli di un Creatore che tesse le trame della nostra vita, a noi sconosciute, fino a quando non torniamo a riconoscere l’Artefice di tutte le cose nella quotidianità che ci circonda. “Il sogno finisce all’improvviso” è questo, un romanzo incentrato sulla tensione delle relazioni umane, stilisticamente caratterizzato da una prosa diretta e asciutta nei dialoghi, a cui si alternano ricche e variegate digressioni teoriche fra le quali si cela una amara critica ai rapporti sociali contemporanei.

Quando la notte di Cristina Comenicini. L’ombra sulla maternità

Manfred e Marina, burbero e solitario il primo, tormentata e fragile la seconda, sono i protagonisti di “Quando la notte”, libro edito dalla Feltrinelli pubblicato nel 2009, da cui la stessa autrice Cristina Comencini ha curato sceneggiatura e regia per l’omonima pellicola. A fare da sfondo alle vicende il paesaggio montano, geograficamente non identificato, che con le sue ripide e difficili salite, con i suoi lunghi e solitari inverni, tratteggia l’esistenza interiore dei personaggi, segnati da traumi del passato, angosce inconfessate e incomunicabilità. Lui è nato e cresciuto in montagna e svolge la professione di guida alpina, lei è giunta dalla città per trascorrere un mese con il bambino Marco di circa due anni, nell’intento di rinvigorire il suo appetito e ristabilirne i ritmi del sonno. Marina affitta l’appartamento del piano superiore dell’abitazione di Manfred, arredato dalla moglie Lina che lo ha abbandonato portando con sé i figli. Marco non dorme, Marina è esausta, ma si ostina a voler far credere che la sua vita di mamma è sotto controllo. Una sera Manfred sente urla e rumori provenire dal piano di sopra, seguiti da un sospetto silenzio. Allarmato, bussa alla porta, ma la donna non risponde, allora si vede costretto a forzare la porta e la scena che gli si presenta dinanzi lo getta in un atroce sospetto, che la donna non sia in grado di accudire il proprio figlio. Soccorrerà il bambino e farà intendere a Marina di conoscere il suo segreto. Da quel momento fra i due inizia una battaglia silenziosa che ha come obiettivo portare allo scoperto l’uno le debolezze dell’altra. Finiranno entrambi stremati sul suolo delle emozioni, come due cuccioli ammansiti che si leccano le ferite a vicenda. Sempre più attratti l’uno dall’altra, il legame che intrecceranno fra loro non sarà mai trasparente e definitivo, così come solo fra due anime disorientate, alle quali la vita ha tolto le principali certezze, può purtroppo accadere. L’autrice esplora gli angoli bui della mente di esistenze solitarie e spaventate, dilaniate da manie e ossessioni e lo fa attraverso uno stile asciutto e diretto, con la tecnica del monologo interiore attraverso il quale le riflessioni di Manfred si alternano a quelle di Marina. Il lettore viene così trascinato nel vortice di pensieri torbidi, che mettono a nudo i tormenti delle generazioni contemporanee, impreparate al loro ruolo di genitori. Abbandonato in maniera incomprensibile da sua madre quando era ancora un bambino, Manfred cova dentro di sé un odio viscerale per le donne che lo rende incapace di stabilire rapporti duraturi e sereni con l’altro sesso, nonché vittima di scatti d’ira, mentre Marina si porta addosso da sempre il peso di un senso di inadeguatezza. Bambina sognatrice durante l’infanzia, donna ammaliatrice da grande, oggi è una madre distratta che fa fatica a riconoscere il suo istinto materno. Perseguitata da ansie e paure, soffoca il figlio di eccessive attenzioni, impedendogli di vivere spontaneamente le proprie emozioni e di farlo crescere in maniera sana ed equilibrata. La Comencini si addentra in un terreno difficile, quello della maternità, ribaltando i luoghi comuni che celebrano l’evento come un momento idilliaco per la vita di una donna.  Facendo calare il sipario sul palcoscenico di autentiche paure, illumina antri bui e nascosti attraverso scene di cruda verità. Un libro che, seppur nel suo stile contemporaneo frammentario, rischia di confondere il lettore, fa riflettere sul fatto che forse non sempre i sorrisi lanciati dalle mamme che spingono i passeggini per strada siano poi così del tutto veritieri e che, dietro quegli occhi cerchiati, non si celano solo notti insonni, ma lunghi momenti di angosce e tormenti più profondi.

Una moglie a Parigi di Paula McLain. Biografia romanzata sulla vita di Hadley Richardson, prima consorte di Hemingway

Meglio nota come la moglie parigina, Hadley Richardson rivive oggi in un romanzo scritto in prima persona come una figura femminile dall’animo sensibile e conciliante che ha vissuto accanto a uno dei maggiori autori del XX secolo durante gli anni di esordio della sua carriera letteraria. Colpita dall’affascinante e spavaldo scrittore in erba più giovane di lei di otto anni, si lascia sopraffare da emozioni che la sua vita di ragazza ingenua e spaventata non le ha ancora fatto conoscere vivendo questo nuovo sentimento con assoluta abnegazione. Accetta di partire con il suo novello sposo alla volta dell’Europa, per la quale si imbarcano pieni di speranze alla fine del 1921 sulla Leopoldina. Insieme, racconta “Contemplammo la distesa del mare tenendoci abbracciati. Era inverosimilmente immenso, pieno di bellezza e al contempo di pericoli – e noi volevamo tutto”. A fare da sfondo alla narrazione degli eventi è la Parigi degli anni ’20, allora considerata la città giusta e interessante in cui tutti avevano qualcosa da offrire e dove i coniugi Hemingway si trasferiscono dopo il matrimonio “per seguire la corrente”, alla ricerca del successo. Nei salotti letterari parigini i protagonisti della storia entrano in contatto con la società intellettuale dell’epoca costituita da scrittori europei e americani del calibro di Gertrude SteinEzra Pound e Scott Fitzgerald, dediti a una vita dissoluta, contrassegnata da emozioni esaltanti e poco convenzionali che finiranno col travolgere l’esistenza dello scrittore americano trascinandolo in una realtà ben lontana da quella fatta di confidenza e rispetto che contraddistingue il suo legame con Hadley. Quest’ultima viene presentata, già attraverso la storia della sua famiglia di origine, come una donna dai gusti tradizionalisti in fatto di arte, messa in ombra dalla vita dei personaggi che la circondano a causa della sua indole riservata e talvolta insicura, ma che negli anni imparerà a scoprirsi diversa e consapevole di sé, forte dell’amore provato e vissuto accanto a un uomo tormentato dai fantasmi del passato, dai conflitti familiari ai traumi di guerra, che nelle ultime pagine del romanzo ella stessa definirà “un vero enigma: delicato e forte, debole e crudele. Un amico senza pari e un figlio di puttana. In fin dei conti non esisteva un’unica verità su di lui, perché tutte erano vere”. Nel romanzo, seppur senza approfondirne a fondo la psicologia, vengono presentate diverse figure femminili, alcune delle quali sono costrette a indossare i panni di mogli devote, vittime dei dettami di una società perbenista o semplicemente della loro incapacità a rinunciare a malsani legami sentimentali, altre, libertine e femministe, celano l’ambizione di una storia stabile, di un amore eterno che a quei tempi sembrava un’utopia da realizzare e che invece agli occhi di tutti, la coppia Hemingway-Richardson sembrava incarnare alla perfezione. Un idillio anche questo che pian piano viene eroso come roccia calcarea dalle onde che, dapprima in silenzio, poi sempre più rumorose, si infrangono sulle loro vite. La smania di affermarsi, la competizione e i compromessi, porteranno Ernest a far vacillare la stabilità emotiva trovata grazie a Hadley, la quale proprio attraverso il loro legame e all’esperienza della maternità, realizza di essere diventata una donna nuova, che troverà il coraggio di fare la sua scelta con dignità perché, come rivela in una presa di coscienza riferendosi al marito “Lui mi aveva aiutato a scoprire chi ero e cosa ero capace di fare”. Seppur relegata dalla storia a ruolo di prima moglie, l’importanza di Hadley nella vita di Hemingway verrà rivalutata dai lettori dopo essersi avvicinati a questo romanzo perché nonostante il triste epilogo, la storia d’amore raccontata rappresenta un esempio di conquista femminile che ancora una volta conferma il famoso detto “dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna” e Hadley Richardson è stata una donna che con dedizione e pacata presenza ha saputo sostenere un marito con le sue inquietudini, prima che spiccasse il volo verso la notorietà.

Come le mosche d’autunno di Irène Némirovsky. Il triste epilogo di un’epoca, fra ricordi e nostalgie

Pubblicato in Francia nel 1931 Come le mosche d’autunno, breve romanzo della scrittrice francese Irène Némirovsky, è stato riproposto in Italia dalla casa editrice Adelphi nel 2007

Vedova settantenne, sopravvissuta a figlio e marito, la balia Tat’jana Ivanovna, protagonista di Come le mosche d’autunno, viene presentata come una donna fragile, dall’aria vivace e dallo sguardo che da acuto comincia talvolta a farsi trasognato. A servizio dell’aristocratica famiglia Karin da generazioni nella maestosa dimora situata nei pressi del villaggio di Sucharevo nella Russia nordoccidentale, è lei che saluta i due fratelli Jurij e Kirill in procinto di partire per la guerra nella scena inziale del racconto. Dopo aver partecipato al ballo, svoltosi in un’atmosfera apparentemente godereccia che offusca in realtà un imminente preludio a morte e tristezza, i due ragazzi si allontanano sulla slitta che lascia solchi profondi sul suolo ghiacciato, mentre alle loro spalle la balia traccia segni di benedizione. Con estrema abnegazione la nutrice resta, sola, a sorvegliare la grande tenuta dopo la fuga dei Karin a Odessa nel gennaio del 1918, accoglie Jurij braccato dai nemici e intraprende, senza alcuna esitazione, un viaggio difficoltoso per raggiungere i padroni con i gioielli cuciti nell’orlo della gonna. “Mai avrebbero scordato il momento in cui lei aveva bussato alla porta e aveva fatto la sua comparsa, sfinita ma tranquilla, con il fagotto di stracci sulla schiena e i diamanti che le sbattevano contro le gambe stanche”. Grazie all’arrivo provvidenziale dell’anziana donna, la famiglia, da lei seguita, lascia la Russia alla volta della Francia, accolta da umidi e lunghi autunni. Qui, rinchiusi in angusti appartamenti, i Karin “vivacchiavano fino a sera” e “Camminavano avanti e indietro da una parete all’altra, in silenzio, come le mosche d’autunno, allorché, passati il caldo e la luce dell’estate, svolazzano a fatica, esauste e irritate, sbattendo contro i vetri e trascinando le ali senza vita”. In poche pagine di Come le mosche d’autunno Irène Némirovsky condensa anni di storia, regalando un affresco letterario di un momento da ella stessa vissuto in prima persona. La scrittrice francese nacque a Kiev nel 1903 dove visse fino al 1918 quando, a causa di una taglia messa dai Soviet sulla testa del padre banchiere, fu costretta a trasferirsi in Francia. Il rapporto con la madre fu sempre difficile e contrastante e sin da bambina fu affidata alle cure di diverse governanti dalle differenti nazionalità, dalle quali apprese svariate lingue straniere. In questo breve e toccante romanzo la scrittrice francese ritrae un personaggio davvero singolare. Con il suo modo di agire perseverante e devoto, Tat’jana Ivanovna rappresenta il legame con un’epoca d’oro il cui idillio viene spazzato via con violenza e in modo ingiusto dalla rivoluzione bolscevica. Mentre la famiglia dei Karin, disillusa, fatica ad adattarsi al misero presente, la balia, rimettendosi alla volontà divina, sopravvive grazie ai ricordi, perennemente indaffarata in faccende domestiche in attesa dell’arrivo della neve a Parigi, in uno stato confusionario fra delirio e realtà “il giorno in cui l’avrebbe vista cadere, sarebbe finito tutto … Avrebbe dimenticato. Si sarebbe messa a letto e avrebbe chiuso gli occhi per sempr”e. Lo stile del romanzo è limpido, la lettura scorrevole. Pur riconoscendo un’impostazione tradizionale nella narrazione, è possibile cogliere il passaggio a un’esposizione più moderna, scandita da una trama concisa, capitoli brevi, dialoghi incalzanti e da un’attenta analisi psicologica dei personaggi. Di primo acchito Come le mosche d’autunno sembra limitarsi a voler raccontare le vicende storiche di una famiglia decaduta, in realtà il lettore più accorto saprà cogliere l’intensità di questo breve romanzo nelle sensazioni di amarezza e solitudine cui è destinata l’umanità. La grandezza di un’epoca che non tornerà e che riaffiora come una punizione attraverso il barlume di un’accorata nostalgia e l’ineluttabile declino di una potenza, quella russa che, agendo nell’illusione della salvezza di quella parte di popolo che si sarebbe voluto proteggere e tutelare da soprusi perpetuati nel tempo, sparge brandelli di dolori e abbandoni lungo il sentiero della storia. Se si considera l’atroce destino a cui andò incontro la scrittrice, morta ad Auschwitz nel 1942, non si può fare a meno di pensare al valore profetico di alcuni messaggi celati dietro le pagine di grandi autori.

Il diritto del bambino al rispetto di Janusk Korczak, un piccolo libro per fermarsi ad ascoltare il mondo dei più piccoli.

Pubblicato nel 1929, Il diritto del bambino al rispetto è un libro brevissimo scritto dal pedagogo polacco Janusk Korczak con uno stile semplice, discorsivo, diretto e perciò incisivo nella trasmissione del messaggio. Potremmo definirlo una sorta di guida alla riflessione del mondo del bambino, molto spesso dimenticato e il più delle volte superficialmente frainteso dall’adulto. Il libretto si apre con la frase “Cresciamo con l’idea che grande sia più importante che piccolo”. L’errore in cui incorrono gli adulti, sottolinea l’autore, è proprio quello di sottovalutare la potenza del sapere di un bambino. Con i loro atteggiamenti e le loro pretese, i grandi sembra vogliano far credere che egli non sia ancora in grado di capire e che perciò debba sottomettersi alle regole e ai saperi del mondo adulto, che debba essere sorvegliato e protetto dalle difficoltà e dalle sofferenze della vita con lo scopo di aiutarlo e fargli del bene, mentre il pedagogo invita gli adulti a preparare i bambini alle avversità della vita. Gli adulti sono perciò portati a manifestare loro affetto con atti di egoismo che scambiano per tenerezza, come quando li stringono a sé e in realtà non fanno altro che stringersi a se stessi per scappare dalla sofferenza, caricando i piccoli delle loro preoccupazioni. L’autore fa notare come verso il bambino gli adulti provino spesso atteggiamenti di sospetto, di accusa e di sfiducia, mentre in realtà egli è un essere intelligente, in grado di capire necessità, difficoltà e ostacoli della sua esistenza.  A differenza di quello che la società vede nel bambino, cioè solo un adulto di domani, Korczak coglie nell’infanzia il momento cruciale in cui l’ascolto, la comprensione e la complicità possono diventare i mezzi per una crescita migliore. “Esiste l’erronea opinione secondo cui la gentilezza renderebbe insolenti i bambini, e che la risposta alla dolcezza siamo il disordine e l’insubordinazione”  afferma il pedagogo, e gli educatori spesso ricorrono ad atteggiamenti ammalianti, persuasivi o di falsa benevolenza. Le risposte a questi modi di porsi non tarderanno ad arrivare, provocando da parte dei bambini disprezzo, ostilità e cospirazione, mentre la comprensione verso l’eccitazione e l’ebbrezza che prova il bambino, che si nutre di ossigeno come un uomo di vodka, avvicina gli adulti al suo mondo, rendendoli loro alleati. Janusk Korczak, pedagogo, medico e scrittore polacco di origini ebree e dalle idee scomode per la società che decise spontaneamente di seguire i bambini orfani del ghetto di Varsavia durante la deportazione nei lager dove morì, fondò infatti la Casa degli Orfani per educare i ragazzi a diventare adulti liberi tolleranti. Qui si entrava all’età di sette anni e si usciva a quattordici. A differenza delle abitudini consolidate, egli basò il suo insegnamento sull’ascolto, sulla collaborazione e sulla comprensione. I più grandi infatti aiutavano i piccoli nelle faccende domestiche (rifare i letti, pulire le stanze, preparare le tavole ) e tutti erano dediti ad attività artigianali. Furono stabilite regole di convivenza, fra cui l’igiene. All’interno della comunità fu istituito un tribunale composto da giudici di ragazzi eletti fra loro stessi. Venivano decise le punizioni, mai corporali, che avevano lo scopo di decretare in maniera oggettiva la realtà dei fatti, basata sulla comprensione e sul perdono verso l’altro, perché secondo Korczak: “Nessun ragazzo è difficile o cattivo, ma lo diventa perché è infelice. Dovere dell’educatore è scoprire che cosa lo tormenta” . Egli riteneva, inoltre, che la cosa peggiore è che un ragazzo abbia paura dei suoi genitori, dei suoi maestri, per questo la sua frase ricorrente era: “bambini al guinzaglio, ricchi e poveri”. Negli ultimi due capitoletti del breve saggio, viene messo in risalto che il bambino non è solo proiettato verso il futuro, ma ha un suo passato e vive nel presente, è importante pertanto imparare a rispettare le sue fasi di crescita, le sue domande curiose sul presente e le riflessioni sul futuro, le sue lacrime e le sue sconfitte, incoraggiandolo con atteggiamento comprensivo e abolendo l’uso di percosse e di un rigido controllo. L’autore infatti ritiene quanto segue: “Dobbiamo rispetto alle ore, all’oggi. Come farà un domani, se non gli permettiamo di vivere oggi una vita consapevole e responsabile?”. I veri esperti allora sono proprio i bambini, è a loro che occorre rivolgersi per capirli, e sono loro che bisogna tutelare con un’educazione al rispetto a quello che si è. Leggendo il libretto, pagina dopo pagina il lettore si sentirà trascinato in una spirale di sensazioni contrastanti, accarezzato talvolta dalla sensibilità delle parole di Korczak, altre accusato da un piccolo tribunale interiore, domandandosi se il bambino che egli è stato, è stato correttamente ascoltato e se l’adulto che sta diventando è in grado di comprendere le esigenze del bambino che magari ha già accanto e quello che ancora alberga in sé. In conclusione possiamo affermare che lo scritto risulta molto attuale perché, nonostante oggi siano stati sanciti i diritti dei bambini, sappiamo bene che esistono Paesi del mondo in cui l’infanzia viene ancora negata e, paradossalmente proprio presso la società più “civilizzata” si verificano episodi incresciosi che di rispetto verso il bambino hanno ben poco. Non solo, anche nei piccoli gesti di tutti i giorni manifestiamo atteggiamenti poco attenti verso i più piccoli, trascinati dal vortice della frenesia quotidiana che ci porta a volere e a concedere tutto e subito. Queste preziose pagine lanciano un monito molto importante, colpendo come un mea culpa molti genitori ed educatori che cominceranno a riflettere quando, nel momento di voler imporre il rispetto per i grandi, si soffermeranno in primis a rispettare il bambino che hanno di fronte.