La strategia di Peter Pan di Aldo Carotenuto

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Da sindrome, il peterpanismo diventa àncora di salvezza in una società che spinge a soffocare creatività e immaginazione.

Quante volte ci capita di pronunciare frasi del tipo “come mi piacerebbe tornare bambino”, o meglio ancora “come sarebbe bello restare bambini per sempre”? Anche solo per pochi attimi tornare nei panni dell’infante che siamo stati ci permetterebbe di assaporare ancora quel piacevole gusto di grandiosa onnipotenza che si prova durante l’infanzia. Un bambino è felice, si compiace del suo essere al mondo intento a esplorare con il sentimento della meraviglia di chi vede per la prima volta le cose, per scoprire qual è il suo posto fra le creature dell’universo. Eppure, quando ci troviamo di fronte a un adulto che vive la propria esistenza inseguendo sogni e facendo della fantasia il suo ideale di vita, lo incolpiamo di comportamenti infantili, inadeguati alla sua età, accusandolo di fuggire dalla realtà e finiamo per denominarlo un eterno Peter Pan. C’è qualcosa che non torna in questo atteggiamento palesemente contraddittorio, di cui pochi sembrano rendersi conto, forse perché in realtà non si ha piena consapevolezza di cosa la figura di Peter Pan rappresenti. Si legge nel finale del celeberrimo romanzo “Peter Pan” di J.M. Barrie:

“Pan, chi o cosa sei tu?” “Io sono la giovinezza e la gioia. Sono un uccellino appena uscito dal guscio.”

Cosa fa un uccellino appena uscito dal guscio, allora? Si osserva intorno, esplora il mondo per la prima volta. E come lo fa? Attraverso la meraviglia. Stupendosi, va incontro al mondo e, spinto dalla curiosità, vuole conoscere sempre di più. Non è in fondo quello che fanno tutti i bambini quando cominciano a scoprire suoni, odori e movimenti? Sorridono di rimando, portano tutto alla bocca, si mettono in pericolo. Imparano cioè a conoscere il mondo e, le armi a disposizione per plasmare il mondo a loro piacimento, sono per l’appunto curiosità e creatività.

Su questa controversa questione psicologica che caratterizza sempre più spesso la nostra vita di fronte a insoddisfazioni e vuoti interiori, talvolta incolmabili semplicemente perché non possediamo gli strumenti psicologici per analizzarli a fondo, fa riflettere i lettori lo piscoanalista e scrittore italiano Aldo Carotenuto, che nel suo breve saggio del 1995 “La strategia di Peter Pan”, pubblicato dalla Bompiani, rivendica l’importanza di salvaguardare il proprio potenziale creativo e di preservare prerogative tipicamente infantili come l’identificazione con la realtà e la partecipazione affettiva al mondo.

La società contemporanea in cui predomina una cultura razionalistica, fa notare Carotenuto, tende ormai a circoscrivere il modo di pensare del bambino come qualcosa di poco pratico. L’autore afferma infatti che “La fantasia, la meraviglia, la ricerca di contatto, mortificate e scoraggiate dall’attuale sistema di valori perché poco necessarie alla logica della produttività e del pragmatismo, vengono considerati poco “pratiche” anche per i bambini. Apprendere più che giocare, prepararsi alle future attività più che immergersi nel magico fluire del presente, differenziarsi più che porsi in relazione, sono gli attuali imperativi”.

È sempre più raro, se ci pensiamo, vedere un adulto giocare con un bambino, preso com’è dalla sua vita frenetica e dal tentativo di dettare regole nella presunzione di riuscire ad avere il controllo su cose e situazioni. Ecco allora che il gioco non è più inteso come espressione dell’interiorità del bambino, della trasformazione del mondo attraverso la fantasia, l’intraprendenza e la voglia di innovarsi. La funzione del gioco nell’infanzia, hanno sempre affermato i pedagogisti, è la capacità di creare la realtà affidata al bambino e di mettersi in relazione con l’alterità. Il gioco quindi rappresenta il seme dal quale germogliano abilità e attitudini utili al futuro del bambino. Privandolo invece di spazi e adeguate occasioni di gioco, si rischia di sostituire la dimensione della spontaneità e dell’immaginazione con un ferreo pragmatismo, che induce a vivere la realtà come una sfida fra migliori. Se qualcuno di voi ha avuto modo negli ultimi anni di frequentare palestre o spazi adibiti ad attività ricreative, si sarà di certo reso conto di quanto il pubblico composto da genitori, più che a essere interessato alla partita o all’allenamento in sé, sia invasato piuttosto da spirito di competizione. Non si gioca più per il gusto di provarci, o di misurarsi con sé stessi, si gioca per vincere, per essere i migliori. Sembra essere questo l’unico strumento a disposizione per affrontare il mondo nelle mani dei bambini, sempre più egocentrici e poco attenti e rispettosi verso gli altri. I bambini sembrano essere trofei nelle mani degli adulti da mostrare con vanità al mondo.

Tornando al testo in questione, Carotenuto scrive: “il genio della fanciullezza” è presente negli individui creativi, o in quelli eccentrici che rifiutano di accettare supinamente le norme di condotta che la società impone”. Spesso infatti gli individui creativi, gli artisti in special modo, descrivono la loro attività come “gioco”. E invece a quanto pare oggi il gioco, così come viene proposto dagli adulti, si svuota del suo originale significato perché “I bisogni del bambino vengono ignorati a scapito dei bisogni dell’adulto, se non, ancora peggio, i bisogni dell’adulto vengono proiettati e tradotti come bisogni infantili”.

Un altro riferimento al riguardo, ovvero le parole tratte dal Vangelo: “Lasciate che i bambini vengano a me”, rivela un tipo di approccio semplice e ingenuo verso la vita che si apprende stando accanto ai bambini, un modello che la società contemporanea definisce in un certo senso un pericolo da cui il mondo infantile deve essere difeso.

Ecco allora che l’autore sofferma la sua attenzione sull’importanza del ruolo che l’adulto esercita sul bambino. L’adulto, con i suoi atteggiamenti e le sue parole, non si rende conto di quanto questi nascondano molto spesso idee e azioni mancate nel loro stesso vissuto passato. Dalle parole di Jung si evince allora che “Ciò che di norma influisce di più sul bambino a livello psichico è quella vita che i genitori (e i progenitori, poiché si tratta del fenomeno psicologico primordiale del peccato originale) non hanno vissuto … Da qui si sviluppano i germi più virulenti” e quindi, aggiunge Carotenuto nella sua argomentazione “Il bambino è in qualche modo chiamato a rispondere dell’ombra dei suoi genitori.” E, per finire, “Ciò che i genitori non vivono si riverbera malignamente sul bambino e lo investe con una prepotenza alla quale egli non ha i mezzi per opporsi adeguatamente”. Se teniamo conto di quanto dimostrato dai più noti pedagogisti come Winnicot e Klein, l’evoluzione del processo di conoscenza nel bambino è la volontà di creare il mondo dal niente. Il bambino quindi crea a prescindere dal fatto che una realtà esista già, dato che, specifica lo psicoanalista italiano “la creatività equivale piuttosto alla capacità di mantenere durante tutto l’arco della propria esistenza una visione personale delle cose, una potenzialità creativa con la quale in ogni momento si può dare inizio a una nuova genesi del mondo”.

Riferendosi invece all’antropologo Montagu, il quale riteneva che le domane dell’infanzia sono “la linfa vitale della scienza, della filosofia e della mente attiva e fantasioso in ogni campo della vita”, Carotenuto intende dimostrare che i bambini sono dotati di un pensiero divergente, ovvero la capacità di elaborare “risposte nuove rispetto all’informazione data”. Questo tipo di pensiero, presente in maniera rudimentale già nella primissima infanzia, è tipico delle menti creative.

“Potremmo anche affermare che è il nostro bambino interiore il vero e proprio profeta dei nostri futuri destini e, anche, dei nostri futuri conseguimenti …. Il bambino interiore è il nostro sogno in azione, il nostro stesso futuro in attesa di esplicarsi”

Il bambino, possiamo quindi concludere, emerge come individuo unico dotato di capacità di rispondere all’ambiente che lo circonda in maniera personalissima perché, come dichiara l’autore stesso “Siamo esseri unici, e solo coltivando la nostra differenza potremo realizzare le potenzialità della nostra umana natura”, e sembra scontato aggiungere a questo punto, a patto di non tradire la nostra parte bambina in età adulta.