Un’antica casa sul mare – Cancro Luglio 2019

«La sua vita era stata confusa e disordinata… Ma se poteva ritornare a un certo punto di partenza e ricominciare lentamente tutto da capo, sarebbe riuscito a scoprire qual era la cosa che cercava.» (Il grande Gatsby – F.S.Fitzgerald) Il suo unico interesse, quando la vide per la prima volta, fu di portarla via da quel posto aberrante. La vide e ne fu subito attratto. Occhi a mandorla, di un colore cangiante fra il giallo e il verde smeraldo, sembrava un cerbiatto scalpitante alla ricerca di una via di fuga. Lo colse subito il tremito nel suo sguardo. Sorrideva a chi la osservava, ma poi subito ti faceva sentire un estraneo; la sua era un’attenzione dettata dall’educazione più che dalla voglia di dare confidenza. Alta non più di un metro e sessanta, indossava un tailleur stile anni ‘50 panna e al collo portava una sottile collana di perle. La gonna a tubino fasciava un paio di gambe asciutte e le scarpe, anch’esse di tonalità chiara e dal tacco altissimo, slanciavano i polpacci ben torniti. Vestita così, sembrava una moderna Vestale pronta a immolarsi all’altare degli spietati affaristi che occupavano quel giorno la sala congressi dello storico Grand Hotel Excelsior Vittoria, situato nel cuore di Sorrento. Era l’inizio di maggio e le temperature si prospettavano più elevate del solito. Il ristorante dell’albergo era posto su un terrazzo a picco sul mare, da cui si godeva dell’ampia vista che toglieva il fiato sul Golfo di Napoli e sul Vesuvio.  Appoggiato alla ringhiera, gustando il suo Montecristo a lente boccate, accompagnando la fumata con un bicchiere di porto d’annata, James Green osservava gli astanti, quella mattina di primavera, più calda del solito. Lanciava sguardi sprezzanti sui commensali, scrutando acutamente ogni vezzo, cogliendo manie, smascherando piccole verità sconosciute agli stessi fautori. “Non illuderti, in questo lavoro non esistono amici” gli era stato detto quando aveva deciso di diventare mediatore immobiliare. Dotato di un grande intuito, abile dialettica e audacia, James Green si era subito distinto nel cinico mondo della finanza, scalando in breve tempo la vetta del successo, affermandosi tra i broker più richiesti della facoltosa agenzia immobiliare Tillow and Company che copriva il mercato di New York e dell’Italia. Quel giorno erano lì riuniti i più scaltri speculatori del gruppo per il Meeting annuale e molti dei manager più facoltosi erano accompagnati dalle loro consorti o amanti. La donna vestita di bianco si stava versando dello champagne nel flute di cristallo. Un uomo dal viso abbronzato e la barba argentea finemente rasata, la afferrò per le spalle, facendola sobbalzare dallo spavento. Lo sguardo della donna, fino a pochi minuti prima acceso e vispo, si incupì, e subito lasciò il calice sul tavolo, seguendo obbediente l’uomo. James osservò la scena spegnendo nervosamente il Montecristo nell’ultimo goccio di porto sul fondo del bicchiere. Erano le tre del pomeriggio, quando la vide imboccare Piazza Tasso. Era un punto di luce candido che si affannava, con passo deciso, a raggiungere l’angolo della piazza in cui si ergeva la statua di Sant’Antonio, protettore della città, che l’aveva difesa in passato ora dagli attacchi saraceni, ora da epidemie e possessioni demoniache, fino a praticare il miracolo della liberazione di un fanciullo dal ventre di una minacciosa balena, di cui si custodiva ancora un osso nell’ingresso ad arco della Basilica dedicata all’antico frate. Ma lei da cosa voleva proteggersi, mentre si piegava in un inchino devoto davanti alla lapide marmorea, sulla quale era posta la statua? Si guardò intorno con sospetto mentre faceva un rapido segno della croce e subito riprese il suo cammino. Mentre la donna avanzava decisa, James lanciò uno sguardo furtivo allo sfondo della piazza, dove si intravedeva uno scorcio del famoso Vallone dei Mulini, in cui un tempo le colline erano attraversate dalle acque sorgive che avevano portato alla costruzione di un mulino per la macinazione del grano con annessi segheria e lavatoio, dove le donne si affaccendavano con il bucato. Adesso una selvatica vegetazione, composta prevalentemente da felci giganti, nascondeva i resti dell’antico rudere, isolato a partire dal XIX secolo con la realizzazione della piazza. James affrettò il passo, seguendo la donna attraverso l’intricato dedalo di viuzze che si snodavano lungo il centro storico. Dal ritmo veloce con cui incedeva, l’uomo capì che la donna sapeva dove andare. Aveva tolto i tacchi alti e ora portava un paio di calzature più comode. Al collo scintillava il filo d’oro della collana di perle, mentre un ampio foulard colorato le avvolgeva il capo e un paio di occhiali da sole nascondeva il suo sguardo vivace. Se lo immaginava, James, mentre si posava sfuggente sulle chincaglierie delle bancarelle e poteva vedere, ai metri di distanza a cui si teneva, il gesto nervoso della mano con cui scansava gli ambulanti impudenti che provavano ad avvicinarsi a lei. Aveva un portamento raffinato e i suoi movimenti erano decisi e disinvolti. Di tanto in tanto alzava il capo per osservare i fregi dei portali sfarzosi delle antiche dimore nobiliari di Via Giuliani e Via Tasso e le leziose decorazioni arabo-bizantine dei palazzi storici che si ergevano lungo Via Pietà. Dalla pietra lavorata, lo sguardo si posò infine sul legno finemente intarsiato della Cattedrale dalla facciata neogotica per un tratto in cui sembrò smarrirsi ma poi, instancabilmente, la donna tornò indietro e proseguì verso la Basilica romanica di Sant’Antonino. Saliti rapidamente i quattro gradini, si intrufolò nel piccolo portico, per poi avanzare lungo il lato meridionale della basilica, dove osservò, indugiando ammirata, la serie di colonne in marmo giallo culminanti nei capitelli in stile corinzio. Poi, finalmente, entrò nel maestoso edificio. Poco dopo anche James faceva il suo ingresso nel luogo sacro, in tempo per osservare l’incedere più calmo e rassicurane della donna davanti a lui. La navata centrale, già illuminata dai riverberi dorati delle decorazioni dei rosoni sul soffitto, sembrò accendersi al passaggio sinuoso dell’ignara pedinata. Anche James avanzò di alcuni passi, sostando, di tanto in tanto, sotto una delle navate laterali. Le scene affrescate della vita e delle imprese del santo gli scorrevano davanti, rapendo i suoi pensieri: ‘Quanto coraggio, devozione e abnegazione. Si nasce per aiutare, la mano tesa a sorreggere, a proteggere e salvare le anime perse nei loro tormenti.’ La donna nel frattempo si era genuflessa tra i primi banchi, raccolta in preghiera. Allora James la raggiunse e si sedette alle sue spalle. Quando ebbe finito di pregare, la donna si tolse gli occhiali e soffocò un singhiozzo, poi prese a rovistare nella minuscola borsa che portava a tracolla, ma non fu necessario spazientirsi oltre, qualcuno dietro di lei le porgeva un fazzoletto inamidato, finemente ricamato. Alzò lo sguardo per ringraziare timidamente, mentre accettava quell’offerta generosa. Si tamponò leggermente gli occhi, poi tese il fazzoletto al suo soccorritore, che prontamente esclamò: “Può tenerlo, è suo.” “Non potrei mai, è un pezzo artigianale di valore, si vede, non vorrei privarla di un ricordo prezioso.” “Proprio per il suo valore, lo dono a lei.” Questa volta la donna restò senza parole. Stemperò l’imbarazzo con un lieve sorriso, lasciò il fazzoletto all’uomo e si rialzò con prudenza, facendo attenzione a non inciampare tra i banchi, ma il mocassino, forse per il piede sudato dopo il troppo camminare, le si sfilò impigliandosi nell’inginocchiatoio e scoprì il piede arrossato e indolenzito. James raccolse prontamente la calzatura e la infilò al piede della donna, che spazientita esclamò: “Lasci stare, non si preoccupi, ci penso io!” Ma James non colse l’irritazione nella voce, perso in quei due occhi smarriti e lucidi come smeraldi che sotto la luce della navata avevano assunto sfumature di un intenso verde indefinibile.  “Si tratta di un regalo di mia madre…” Poi, dinanzi all’espressione interrogatoria e stupita della donna, aggiunse: “Il fazzoletto, intendo, lo ha ricamato lei, se guarda con attenzione ci sono le mie iniziali: J. G., James Green.” “Capisco, ma adesso devo proprio andare.” “La aiuto, Signora …” “… Grace … mi chiami Grace … ma adesso devo proprio andare” e così dicendo si liberò dalla presa dell’uomo e si allontanò da lui, frettolosamente. L’eco dei passi di Grace si diffuse per tutta la navata. James  la guardò andare via, in silenzio. La mattina successiva, sul terrazzo dell’Excelsior Vittoria, i partecipanti al meeting erano intenti a consumare la loro colazione, frastornati dal brusio dei rumorosi commensali locali. Impettiti, nei loro smoking di pregiata fattura, celavano l’imbarazzo per quell’intrusione inaspettata. I turisti si erano imbucati per ammirare il panorama che dal piano in cui avevano prenotato non suscitava la stessa suggestione. Quando il maȋtre, imbarazzato, li aveva intimati ad abbandonare la sala, avevano reagito con fare scontroso e, irremovibili, avevano preteso di condividere la colazione con gli affaristi americani. Al tavolo delle bevande, la calca dei commensali facevano scontrare fra loro i bicchieri provocando un incessante tintinnio. James Green si teneva alla larga da quella confusione, sorseggiando un caffè in disparte dalla folla. Improvvisamente la vide sbucare in difficoltà da quella ressa e nell’allontanarsi, il tovagliolo che teneva sul piatto a coprire la sua colazione, precipitò sul pavimento del terrazzo. Si piegò a raccoglierlo e lo porse a Grace, che lanciando lo sguardo all’uomo apparso all’improvviso al suo fianco, emanò in un sussurro un timido: “Grazie.” “Sono destinato a porgerle sempre qualcosa, in un modo o nell’altro.” Il grigio impenetrabile di quegli occhi su di lei, turbarono Grace come il giorno precedente nella basilica. “Mi auguro, questa volta, che il tovagliolo non le serva per asciugarsi gli occhi, non permetterei una seconda volta che una donna sia triste dinanzi allo splendore di un luogo simile” e così dicendo allargò il braccio verso la terrazza e inavvertitamente colpì il gomito di uno dei tronfi affaristi al suo fianco. Lo sguardo che ricevette non inquietò minimamente James, che corrugando la fronte e alzando le spalle, si allontanò da lui senza voltargli le spalle e, sfacciatamente, lanciò l’occhiolino a Grace che non riuscì a trattenere un sorriso. Al termine della prima parte del congresso, la sala si svuotò lentamente. Qualcuno si attardò a contemplare la lavagna luminosa dove era rimasta impressa l’ultima diapositiva di torte e istogrammi multicolori. James, seduto in ultima fila, aspettava paziente che anche Grace lasciasse la sala e, quando la donna fu a pochi passi da lui, sentì il fruscio dell’ampia gonna cremisi di taffetà a pieghe, che indossava quel giorno. “Permetta che le offra un caffè, Grace.” La donna si guardò spaesata in giro, ma oltre a James Green, ormai nella sala non c’erano più partecipanti. Lo guardò allora dritto negli occhi e annuì col capo. Inaspettatamente, James la prese per mano e iniziò a correre, imboccando la scala antincendio. Grace si tenne il tupet che a fatica era riuscita a sistemarsi quella mattina con la mano libera e, affannata, chiese preoccupata: “Ma dove stiamo andando?” “Vuoi vedere un vero spettacolo, Grace?” Gli occhi di James avevano assunto un’espressione nuova, da bambino divertito, assalito da un improvviso entusiasmo che la contagiò, inebriandola come non accadeva da tempo. “Siii!” esclamò d’istinto. James allora le lanciò un sorriso genuino che la fece arrossire inaspettatamente. Dopo aver sceso in fretta due piani di scale, James si fermò dinanzi a una porticina di legno, che aprì lentamente verso l’esterno. Grace restò ammutolita dinanzi alla scena: un balconcino si affacciava su una scogliera da cui si innalzavano lapilli di schiuma di mare. Fu invasa da una vertigine che le fece sobbalzare lo stomaco. Il blu intenso del mare si perdeva nell’azzurro terso del cielo. In lontananza, alcuni gabbiani in volo sfioravano a picco le onde agitate. “Sembra un quadro vivente!” disse commuovendosi. “Sapevo che avresti apprezzato, Grace. Perché non scappiamo da qui, il meeting è così noioso e questo posto così meraviglioso da ignorarne il richiamo.” Una smorfia turbata incrinò l’espressione serena di Grace. “È per lui?” chiese James severamente. “Lui? … No, lui …” “L’ho visto Grace come ti tratta, non è gentile e tu non dovresti stare con lui!” La donna indietreggiò di alcuni passi e lasciò la presa della mano dell’uomo, ma questi la afferrò tempestivamente per un braccio attirandola a sé. La donna non lo respinse questa volta e indugiò nei suoi occhi, mentre l’uomo avvicinava sempre più il viso al suo. Gli schiamazzi degli affaristi dal piano di sopra distolsero James dal gesto che stava per fare e fece cenno a Grace di scendere ancora di un piano. La donna obbedì. Giunti al pianerottolo, entrarono in una piccola sala dove, come fuori dal balconcino, predominava l’azzurro. Le pareti erano finemente tappezzate con pregiati tessuti damascati, gli stessi che ricoprivano le poltrone al centro della stanza. Le ampie vetrate ad arco erano aperte verso l’interno, ma in quel momento sembrava che il vento si fosse d’un tratto fermato. L’aria era immobile nella sala, come l’argenteria sui tavolini rotondi dinanzi alle poltrone e la luce fioca delle applique sulle pareti. Grace si guardò intorno intontita, circondata dagli enormi specchi incastonati alle pareti tra un finestrone e l’altro. Improvvisamente notò James accasciarsi su una delle poltrone al centro. Stringeva la testa fra le mani e si scompigliava i capelli. Grace gli si avvicinò lentamente, ma James inaspettatamente si rialzò e prese a muoversi su e giù per la stanza. “Quand’è il suo compleanno?” chiese all’improvviso, guardandola dritto negli occhi. “Il … 19 Lu-glio” rispose Grace, spaventata, a monosillabi. “Il 19 Luglio?” ripeté James, facendo un pausa. Poi diede le spalle alla donna e, avvicinandosi alla finestra, aspirò una nuova boccata d’aria. Si voltò nuovamente e continuò: “Conosco molte persone nate il 19 Luglio, sa?” “Ah sì?” fece di rimando Grace. Il colletto della camicetta, color champagne, mostrava piccoli aloni di sudore che andavano allargandosi dietro la schiena. Allora sbottonò i primi bottoni della camicia lasciando intravvedere il pizzo del candido reggiseno. La voce dell’interlocutore la fece tornare alla realtà, e subito richiuse uno dei due bottoni. “Sì – continuò James con tono caldo e suadente – alcuni vecchi amici, si fa per dire, sono nati il 19 Luglio e uno di questi è un noto uomo d’affari. Comincio a credere che il 19 Luglio sia una data che sforni talenti.” “E così lei crede che mia moglie abbia del talento” una voce alle loro spalle irruppe nella stanza. La porta spalancata fece gonfiare le tende della finestra che diffusero nella stanza un refolo d’aria nuova. “Sei tornato Aaron, ti stavo aspettando, andiamo via di qui” e così dicendo Grace afferrò la borsa e infilò il suo braccio sotto quello del marito. Spaventata, tese timidamente la mano al suo interlocutore, dicendo “È stato un piacere Signor Green, ma ora dobbiamo tornare al Congresso.” L’uomo di fronte a lei non la degnò più di uno sguardo, i suoi occhi, vitrei e severi, erano puntati su suo marito. “Sì, penso proprio che sua moglie abbia talento” sentenziò boriosamente. “Ma davvero?” chiese sarcastico, a quel punto Aaron, sfilandosi il braccio della moglie. Poi, fece alcuni passi verso l’uomo che gli stava davanti. La moglie lo afferrò con decisione per la manica della giacca, ma lui bruscamente si divincolò e a un palmo di naso dall’uomo che restava impassibile al centro della stanza, esclamò canzonatorio: “E mi dica, caro Signor Green, che talento pensa abbia mia moglie?” “Il talento di scegliere uomini vili come lei!” e così dicendo gli sferzò un pugno sul naso. La donna urlò spaventata, il pugile improvvisato abbandonò lungo la gamba il braccio della mano che aveva appena lanciato il colpo, come se la cosa non lo riguardasse. Il marito della donna si pulì il mento dal rivolo del sangue che scivolava lungo la sua guancia e cercò di avventarsi sull’avversario, ma questi schivò il colpo e, roteandogli attorno con movimento felino, afferrò Grace per le spalle, alitandole sul collo. La donna restò immobile, mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime. “La guardi, sua moglie. Ha occhi verdi e chiari come il mare, sguardo docile e labbra suadenti. Chiunque vorrebbe una donna così, pronta a piegarsi al volere di uomini vigliacchi come lei, che desiderano solo ammaestrare al proprio volere gli altri. E si circondano di persone deboli per sentirsi più forti.” “Lasci stare mia moglie!” urlò infuriandosi Aaron. Poi di colpo si zittì. James, tenendo stretta a sé Grace, aveva puntato una pistola contro di lui. La presa con cui l’uomo stringeva l’arma era decisa, lo sguardo irremovibile. Aaron capì che se avesse provato a reagire, le cose si sarebbero messe male per tutti. Cercò di rallentare il respiro e prendere tempo. I due uomini erano in piedi, immobili, l’uno specchiandosi negli occhi dell’altro, la fronte di Grace imperlata di sudore e l’espressione sempre più spaventata. Lentamente James cominciò a indietreggiare e Grace a imitarlo. La presa dell’uomo sul suo collo le impediva di respirare, ma non osava proferire parola. James uscì sempre indietreggiando dalla stanza, poi con un piede chiuse la porta e trascinò Grace giù per le scale. Aaron prese a inseguirli urlando aiuto, ma in quel momento, nel sottoscala, non c’erano inservienti e dai piani superiori proveniva il frastuono del Meeting e dei camerieri indaffarati nella preparazione dei tavoli per il pranzo. James correva tenendo forte il polso di Grace, con l’intento di raggiungere il garage e infilarsi nell’auto. Libera finalmente di respirare regolarmente, Grace provò a rivolgersi con calma a James: “È tutto finito, James, lui ora non c’è, ci siamo solo io e te.” Ma l’uomo sembrava non ascoltare le sue parole, intento a cercare le chiavi dell’auto. Giunti dinanzi alla cadillac bianca di James, Grace fu scaraventata sul sedile posteriore. L’uomo si precipitò al volante e con una stridente sgommata uscì dal garage. La luce accecò lo sguardo di James che parve ridestarsi dal torpore che lo aveva avvolto pocanzi. “Grace vedrai, saremo finalmente liberi. Tu da quell’uomo impostore e tiranno e io da quegli affaristi avvoltoi e degenerati.” La donna dietro di lui si sistemò sul sedile, sporgendosi verso il guidatore “Jam…” In quel momento la gonna si sollevò lasciando scoperte le gambe e d’improvviso le note di un brano jazz proveniente da un grammofono d’epoca si diffusero nell’abitacolo del veicolo. Ilari risatine provenivano dalla porta socchiusa oltre il corridoio. Il bambino, incuriosito, attraversava il lungo corridoio dalla moquette sbiadita, dove le suole pesanti delle sue scarpe di vernice lasciavano ampi solchi. Più si avvicinava alla porta, più la risata di sua madre echeggiava per il corridoio. Giunto accanto alla porta, osservò un uomo di spalle che accarezzava le gambe di sua madre che, notatolo, lasciò cadere il calice di champagne sul divano, precipitandosi verso di lui. “Copriti le gambe!” urlò James irato. Grace si lanciò sullo schienale e cominciò a piangere. “Non fare così, cazzo!” sbraitò l’uomo al volante, picchiando sul cruscotto con pugni violenti. L’auto aveva imboccato una stradina che da Piazza Tasso portava al centro, da dove James si sarebbe precipitato fuori dal paese, diretto verso il promontorio sul mare. La cadillac prese a sbandare lungo i brevi tornanti e Grace, preoccupata, chiese: “Dove andiamo? James, cosa vuoi fare? Così ci ammazziamo!” James non rispondeva, lo sguardo perso nel vuoto. D’improvviso, oltre l’insenatura rocciosa che avevano appena raggiunto, alla vista di Grace apparvero antichi ruderi. Di lì a pochi minuti James parcheggiò. Grace tentò immediatamente di aprire lo sportello, ma James lo bloccò. “Non puoi lasciarmi così, Grace, ti ho salvata. Adesso tu starai sempre con me.” Il tono con cui pronunciò quelle parole suonava assente. Alzò il braccio verso il rudere: “La vedi quella villa, è lì che vivremo d’ora in avanti. Benvenuta a casa, Lillian.” Era il giorno di Natale e sua madre lo spingeva a varcare la soglia di una piccola casa di campagna dove l’attendeva un uomo in vestaglia, seduto su una poltrona dal tessuto logoro. Aveva una pesante coperta sulle gambe e gli faceva cenno di avvicinarsi con la mano esile, che presto si portò alla bocca per soffocare acuti colpi di tosse. James strinse più forte che poté la mano a sua madre, la quale inginocchiandosi verso di lui, gli sussurrò all’orecchio: ”Va’ da tuo padre, oggi starai con lui.” “No, mamma! Io non conosco quest’uomo, io voglio restare con te.” Ma in quel momento la donna allentò la presa e si precipitò fuori dalla porta, chiudendola pesantemente alle sue spalle. James corse verso di lei, ma fu afferrato da due robuste braccia. Si voltò spaventato e vide su di lui il volto bucherellato di un donnone in grembiule. Era Susan, la donna che si sarebbe occupata di lui da quel giorno fino alla morte di suo padre, nella casa in cui sua madre lo aveva lasciato per sempre, dopo che il suo amante era sparito e lei era rimasta senza un soldo. “Dov’è la mia mamma?!” urlava James dimenandosi fra le braccia di Susan. “Tornerà, James, vedrai, è andata alla ricerca di una nuova casa” diceva suo padre fra un colpo di tosse a l’altro.   “L’ho trovata prima io, mamma, la casa, vedi?” Grace rabbrividì. “Un tempo ci viveva un’antica famiglia romana e di notte le ninfe marine si affacciavano agli scogli per rubare i grappoli dei vigneti. C’erano anche le terme al suo interno, dove si ergeva un tempietto dedicato a Ercole, che con la sua forza proteggeva l’abitazione dalle impetuose onde del mare. A te è sempre piaciuto il mare, vero mamma?” e così dicendo porse la mano verso la donna seduta dietro di lui. A quel punto Grace capì che James non sarebbe tornato sui suoi passi e fece scivolare la sua mano tremolante in quella dell’uomo, che subito aprì lo sportello. Grace scavalcò il sedile e si ritrovò fuori dall’auto. La brezza marina le schiaffeggiò le guance, scompigliandole la capigliatura. Una pioggia di ciocche ondulate e dorate cadde sul suo volto pallido. James le sistemò un ricciolo ribelle dietro l’orecchio, baciandole delicatamente la fronte. “Seguimi” sussurrò e subito la trascinò con sé su per gli scogli. Grace faticava ad arrampicarsi con i tacchi, e la gonna si impigliava tra i bassi arbusti e nei gesti che faceva per liberarla, annaspando mentre James la tirava per un braccio, si lacerava le ginocchia. Un forte rombo di auto li distolse dalla scalata. Grace riconobbe l’auto di Aaron e, liberatasi violentemente dalla presa di James, sollevando le braccia cominciò a urlare a squarciagola il nome del marito. James si spazientì e cercò di riafferrarla, ma Grace trovò il coraggio di cominciare a scendere disperatamente giù per la scogliera inginocchiandosi, strappandosi le unghie. “Non lasciarmi ancora, Lillian!” La voce di James, incrinata dal pianto, dissuase Grace dalla sua furia e allora gli lanciò uno sguardo docile, dicendogli: “Non sono Lillian, James, Lillian non tornerà più, lasciala andare! Torna giù con me e sistemeremo tutto.” L‘uomo al di sopra di lei, sulla scogliera, si afferrò la testa fra le mani, scompigliandosi nervosamente i capelli. Poi la osservò preoccupato, vide gli uomini sotto di lui che si arrampicavano con foga sul promontorio e volse lo sguardo verso il mare. Grace allora lo chiamò ancora, insistentemente: ”James, afferra la mia mano e torniamo giù.” James le sorrise come aveva fatto poche ore prima sul balconcino e, continuando a guardarla, si lanciò, precipitando a picco sul mare, come un gabbiano, finalmente libero. Grace continuava a urlare il suo nome, mentre il marito la scuoteva per le spalle. La donna, incapace di alzarsi, restò inginocchiata a osservare un fazzoletto volare su per la scogliera. Tese un braccio e lo afferrò, poi prese ad asciugarsi le lacrime, baciando le iniziali finemente ricamate.  

In ricordo di Wislawa Szymborska, la poetessa che ha saputo trasformare l’ordinario in straordinario

In un’epoca in cui tutti si danno alla poesia, la forma artistica più immediata per esternare un’incontenibile urgenza emotiva, la poetica della polacca Wislawa Szymborska, che oggi ricordiamo per l’anniversario della sua nascita avvenuta il 2 luglio del 1923, rischia di incorrere in una banale strumentalizzazione stilistica che giustifica questa voglia di farsi poeti. Cerchiamo di comprendere, allora, in cosa consiste la grandezza della poetessa polacca tanto decantata dal pubblico contemporaneo. Brevi cenni biografici: Wislawa Szymborska crebbe a Cracovia, dove studiò, clandestinamente negli anni della Seconda Guerra mondiale, e dove nel 1941 finalmente si diplomò. Non completò i suoi studi in sociologia a causa delle difficoltà economiche, ma già nei primi anni ’40 scriveva storie e poesie. Determinante fu l’incontro con il poeta e saggista Czesław Miłosz, fortemente coinvolto nell’azione politica e sociale della nazione. Quando iniziò a pubblicare le sue prime poesie, la Szymborska fu sostretta a essere sottopsta alla censura socialista, che non superò, cosa che la spinse ad adattare la sua produzione all’ideologia corrente, da cui negli anni prenderà le distanze, definendo in seguito la decisione accomodante un “peccato di gioventù”. Fu redattrice e illustratrice di riviste e dal 1993 autrice di recensioni per l’importante quotidiano polacco “Gazeta Wyborcza”. Il 1996 fu l’anno del Nobel per la Letteratura. Tra le motivazioni del premio, leggiamo: è autrice di una poesia che, con una precisione ironica, permette al contesto storico e biologico di manifestarsi in frammenti di verità umana. Si rivolge al lettore combinando in modo sorprendente lo spirito, la ricchezza inventiva e l’empatia, ciò che fa pensare talvolta al secolo dei Lumi, talvolta al Barocco”. È morta a Cracovia il 1 febbraio del 2012. Una poetica indefinita La prima poesia di Wislawa Szymborska, intitolata “Cerco la parola”, fu pubblicata nel 1945 sul quotidiano locale “Dziennik Polski” Ed è da questi versi che partiremo con la nostra analisi: Cerco la parola Voglio con una parola Descriverli – Prendo le parole quotidiane, dai dizionari le rubo Misuro, peso e scruto – Nessuna corrisponde. Le più ardite – sanno di codardia, le più sdegnose – ancora sante. Le più crudeli – troppo compassionevoli, Le più odiose – tropo poco violente.   Questa parola deve essere come un vulcano, che erutta, scorre, abbatte, come terribile ira di Dio, come odio bollente. Voglio, che questa unica parola, sia impregnata di sangue, che come le mura tra cui si uccideva contenga in sé tutte le fosse comuni. Che descriva precisamente e con chiarezza chi erano loro – tutto ciò che è successo. Perché questo che ascolto, perché questo che si scrive è ancora tropo poco. La nostra lingua è impotente, i suoi suoni all’improvviso – poveri. Cerco con lo sforzo della mente cerco questa parola  – ma non riesco a trovarla. Non riesco. Cosa è, dunque, la parola tanto avidamente cercata dalla poetessa polacca? Una parola che quando pronunciata si svuota del suo significato, è indicibile, è una parola che non riesce a esprimere “tutto ciò che è successo”. Eppure, nei suoi versi questa parola tanto voluta c’è, si esprime nel suo voler essere potente e distruttiva “come un vulcano (…) come terribile ira di Dio”. È una parola che contiene la morte, è “impregnata di sangue”, è la parola che non si riesce a trovare, ma che in qualche modo si sforza di dire la realtà. E’ chiaro che i versi si riferiscono alla tragedia bellica, ma se andiamo più a fondo nella ricerca delle liriche successive, si comprende come la parola cercata sia il punto di partenza per provare a dire di una realtà che di per sé è indicibile. Nella poesia intitolata “Tutto”, si legge: Tutto – una parola sfrontata e gonfia di boria. Andrebbe scritta fra virgolette. Finge di non tralasciare nulla, di concentrare, includere, contenere e avere. E invece è soltanto un brandello di bufera. In “Vista con granello di sabbia” leggiamo ancora: Lo chiamiamo granello di sabbia. Ma lui non chiama se stesso né granello, né sabbia. Fa a meno di nome generale, individuale, instabile, stabile, scorretto o corretto. Anche l’Amore, nel suo incontro, nel suo ricordo, è una prospettiva di cui non si ha certezza.   Sono entrambi convinti Che un sentimento improvviso li uni’. E’ bella una tale certezza, Ma l’incertezza e’ più bella. (…) Ogni inizio infatti E’ solo un seguito E il libro degli eventi E’ sempre aperto a meta’.   (da “Amore a prima vista”)   Dire l’amore è una prospettiva all’occhio dell’osservatore. D’altronde nessuna garanzia Che fossero loro. Sì, forse, da lontano, ma da vicino niente affatto.”   (da “Prospettiva”)   Indicibile è invece definire la donna alla luce di paura e distruzione: Vietnam Donna, come ti chiami? – Non lo so. Quando sei nata, da dove vieni? – Non lo so. Perché ti sei scavata una tana sottoterra? – Non lo so. Da quando ti nascondi qui? – Non lo so. Perché mi hai morso la mano? – Non lo so. Sai che non ti faremo del male? – Non lo so. Da che parte stai? – Non lo so. Ora c’è la guerra, devi scegliere. – Non lo so. Il tuo villaggio esiste ancora? – Non lo so. Questi sono i tuoi figli? – Sì. E ancora, nella chiusa della già citata “Vista con granello di sabbia” si legge: Il tempo passò come un messo con una notizia urgente. Ma è solo un paragone nostro. Inventato il personaggio, insinuata la fretta, e la notizia inumana. In “Nulla due volte” viene invece detto: Nulla due volte accade/né accadrà   Conclusioni: Attraverso uno stile semplice e lineare, con la scelta del verso libero, le poesie della Szymborska superano la difficoltà dell’illusione tradizionale del poter dire tutto, del rendere Uno il molteplice. Il poeta contemporaneo sa di non potersi esprimere, sin da Leopardi si scopre dotato di una doppia vista, fino a diventare visionaria e profetica, non può più tornare indietro, a un ruscire a esprimere la materia, il dicibile si è fatto frammento di una realtà indicibile. Come cogliere ciò che scorre velocemente sotto gli occhi (dis)umani? La poesia diventa allora l’unico strumento per provare a parlare dello straordinario che si nasconde nell’ordinario. Paradossalmente la Szymborska ha confessato di preferire la prosa alla poesia, di aver sempre desiderato voler scrivere e scrivere in prosa, ma le è riuscito scrivere in versi, in frammenti di vita. Non sa dirla, la parola, la poetessa polacca, ma la tira fuori, dal profondo colloquio che ha con se stessa, con la realtà delle cose che la circondano (animali, oggetti, ortaggi), che la spinge a un esprimersi talvolta ironico, una delle sfumature possibili dell’essere presenti in questa realtà. E il poeta, oggi, allora, chi è? Un letterato erudito o un reietto solitario? Per rispondere al quesito, lasciamo la parola alla protagonista della nostra analisi, ricordando il suo discorso in occasione del conferimento del Nobel: Il poeta odierno è scettico e diffidente anche – e forse soprattutto – nei confronti di se stesso. Malvolentieri dichiara in pubblico di essere poeta – quasi se ne vergognasse un po’. Ma nella nostra epoca chiassosa è molto più facile ammettere i propri difetti, se si presentano bene, e molto più difficile le proprie qualità, perché sono più nascoste, e noi stessi non ne siamo convinti fino in fondo…”

Intervista ad Anna Maria Scopa, autrice di “Dove nevicano le viole”

Mi abita di fronte una parola zoppa che mi rappresenta/un vociare dentro di sogno a trama larga. I suoi versi cantano in un apparente silenzio del cuore, dove “il mare recita preghiere al vento”, “il sole versato in un bicchiere/distrattamente muore”, “dormono le cose/dormono/o forse muoiono in silenzio…” e le “libellule d’ombra/sussurrano silenzi”. Lei è Annamaria Scopa, autrice della silloge poetica “Dove nevicano le viole”, Letteratura Alternativa Edizioni, che oggi conosciamo meglio. Ciao Annamaria, benvenuta in questo spazio dedicato alle interviste. Sei la prima poetessa che lo riempie ed è un vero piacere per me, che ho avuto la possibilità di leggere in anteprima la tua delicata raccolta di poesie “Dove nevicano le viole”, pubblicata l’anno scorso dalla casa editrice Letteratura Alternativa, che mi ha gentilmente chiesto di scrivere la postfazione. Mi piacerebbe cominciare con una domanda classica, che in realtà prevede ogni volta una risposta inedita. Chi è, nella realtà quotidiana, Annamaria donna e chi la poetessa che scrive versi senza sosta? Ciao Domizia, mi imbarazza sempre molto parlare di me. Annamaria donna è una bambina dentro un corpo di donna, cresciuta troppo in fretta e che combatte ogni giorno contro la sua sensibilità per ridurla quel tanto che basta perché non possa farle male, perché si sa in questo mondo la sensibilità spesso è vista come debolezza, ti rende sottile, tutto passa e, a volte, è difficile proteggersi. Non mi piace definirmi poetessa, diciamo che scrivere per me è un bisogno, faccio vivere e curo quella bambina che ho dentro, che anche se è cresciuta, vuole rimanere se stessa. La poesia mi rende libera e felice, spesso è una vera e propria catarsi. La tua raccolta è permeata da metafore e sinestesie floreali: “i gelsomini piangono”, “i fiori fanno rumore tra le dita”, “le viole nevicano”, per citarne alcune. Cosa rappresentano i fiori per te? Oh i fiori…rappresentano la gentilezza, la mia affettività, i miei sentimenti, la mia spiritualità. Sono la mia anima, che è in continua evoluzione, sboccia, per poi appassire e poi rinascere ancora. “Si dirà bisogno/questo cercare una ragione/questa rivoluzione”. Partendo da questa chiusa che sembra stridere con l’apparente bucolicismo delle immagini campestri che caratterizzano l’intera raccolta, mi piacerebbe sapere cosa cerchi nella poesia: una ragione o una evasione dal caos delle emozioni? “Si dirà bisogno” è proprio la risposta! Non so cosa lei voglia da me, un bisogno si, che cerca spazio nelle parole. In essa cerco l’emozione che non so contenere, la cura, spesso il sogno, la fantasia. Nelle tue liriche prevale l’elemento primordiale per eccellenza, quello acquatico, come nella similitudine del cielo definito “liquida parete”, nei versi “le lacrime le devi sotterrare/nell’uragano”, “tu dici fiume le parole che/m’annegano dentro”, “umidi nidi/i tuoi occhi” e ancora ne “le mie piogge/di grano” oppure nell’immagine dell’acqua che piove dalla luna, fino a raggiungere l’acme nella lirica intitolata Hanno chiuso il mare che si conclude con un passaggio fortemente icastico: “così in un secchio verso la luna/travaso di cielo/senza stelle”. Così, in un ritmo fluido in cui le emozioni si rincorrono attraverso un flusso di coscienza marcatamente visionario, all’improvviso spiazzi il lettore con immagini claustrofobiche, fino al boato del tuono. Cosa urla, in realtà, dentro te, che non riesce a venir fuori? Urla: “Il delirio del mare sopra ogni silenzio, il tormento dei narcisi appeso al canto di mille calabroni, i miei passi incrinati nel vento, il suono di mille grilli nel petto”, la mia emotività. Possiamo definire la poesia la musica dello spirito, del resto già i primi aedi dell’antica Grecia coniugavano note e versi e lo stesso Aristotele ha asserito che la poesia è l’arte dell’uomo di imitare ritmo e armonia, operazione inconscia, forse, di ricongiungere dimensione terrena e dimensione celeste. La poesia eleva, secondo te, e dove riesce a condurti? La poesia conduce nella propria interiorità e rende visibile ciò che spesso non lo è, ma sola a chi sa guardare.
La raccolta di liriche di Anna Maria Scopa è un omaggio ai fiori, ai sentimenti che animano la fantasia dell’autrice.
La poesia è un genere considerato di nicchia eppure, fortunatamente, ci sono case editrici che insistono nel voler pubblicare raccolte di versi. Perché, secondo te, il pubblico dovrebbe amare la poesia e leggere le tue liriche? Ti rispondo con un verso di una delle mie poetesse preferite, Wislawa Szymborska: “ io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo come alla salvezza di un corrimano”. Leggere poesia dona benessere, è come ascoltare la musica di Mozart, la poesia favorisce l’empatia, l’introspezione e tutti ne avremmo bisogno. Perché leggere le mie liriche? Perché sono un’empatica, perché “hanno lucciole negli occhi e il temporale sull’orlo del vento”, le mie poesie sono come me. Ringraziandoti per la disponibilità a questa piacevole chiacchierata, vorrei chiederti in conclusione di lasciare un saluto floreale ai lettori di Mi libro in volo. “ Ha chinato corolla il ciclamino ferito. Fiore irto d’incanto nell’infiorescenza del grano a guardare lontano.” Dalla postfazione di “Dove nevicano le viole” edito da Letteratura Alternativa Edizioni, di Domizia Moramarco “Le parole/a volte sembrano fiori” Da sempre l’uomo è prigioniero del linguaggio. Segni, suoni e parole, scritte o tramandate, lo ingabbiano in un codice che finisce per diventare dimora rassicurante. Ma arriva il tempo in cui sconosciuti smottamenti mettono in pericolo le fondamenta e, tra una scossa e l’altra, prima o poi nuove formule ricompongono i confini. I versi della raccolta “Dove nevicano le viole” sono un oscillare fra cuore e ragione, in un fruscio di parole che sfiora questa vita, che l’Io parlante prima odia, poi ama. La tristezza in fondo al cuore per la solitudine nella vetrina del mondo, dove sono in vendita amarezza e delusioni: “Ditelo voi /che una donna è caduta/ nella fossa dei papaveri/gli occhi di liquirizia/ ha perso la strada/ nel gioco alla tristezza/le è caduto un sogno/fuori nella pioggia” lascia posto a un percepire diverso che si fa sentiero da seguire. Si apre allora un portale che conduce a una dimensione altra: zagare, ranuncoli, giacinti, lavanda, thalie, limpide acque rischiarano i sensi, i colori riaccendono nuove pulsioni. É la natura che parla e la donna che adesso vi si immerge la vuole ascoltare. “Io torno in superficie. /Con le allodole”. Un profondersi di emozioni, un protendersi all’ascolto, un volersi lasciare risucchiare dal vortice di un nuovo pensare, più consapevole, dell’esserci al mondo. Le parole sgorgano dalla fonte del cuore, scivolano giù dalla montagna di pietra, “sono la neve candida/che cerca l’estate” trasportando torrenti e detriti, accolti nel grembo della valle lussureggiante che è la nuova dimora di un Io rinnovato. Un Io che ascolta, che vede, che tocca e che annusa quanto di diverso scopre dentro e fuori di sé. Uno specchiarsi al confine di un nuovo orizzonte, laddove sguardi umani non arrivano: “Guardami/sul filo dell’acqua”. E ancora “mentre sulle labbra il tremore./ Esiste?/Esiste./Ti prego vallo a cercare./Non farmi cadere le stelle,/quelle più belle”. Un voler sentire totale, con tutti i sensi, un volerlo vivere quel tremore che porta l’amore perché “Tornare indietro, poi non si può più”. E allora i segni non bastano, allora bisogna reinventarsi il linguaggio: “Sono il Requiem /delle mie domande,/gorgheggio in un /commiato di stelle”. Un nuovo flusso di melodia, al ritmo cadenzato dai nuovi bisogni del cuore, da sospiri che strabordano; non più confini fisici, né limiti ai silenzi, solo un risucchio di forti emozioni, un sentire diverso che ha urgenza di dire, in suoni e parole emessi di getto, con una scrittura automatica che non si vuole fermare. “Sono fatta di virgole e sole”.

La voce nascosta delle pietre di Chiara Parenti

Seguire le pietre per trovare la via, sentire il loro potere per ritrovare se stessi senza smettere mai di cercare: è questo il sentiero segreto che porta alla felicità nel romanzo La voce nascosta delle pietre di Chiara Parenti, edito da Garzanti.

  C’è stato un tempo in cui gli uomini ascoltavano con il cuore. Potevano sentire le parole sussurrate dal vento, quelle trasportate dalle onde delle acque, quelle nascoste sotto i granelli di sabbia, dietro le ombre di alberi secolari, le parole che scivolavano dai petali dei fiori che si aprivano al sole della primavera, fino a percepire i segreti contenuti nelle pietre. Così come diceva Giordano Bruno «l’universo forma un sol corpo», ovvero l’intero Cosmo è animato da forze vitali, la Natura intera contiene, in ogni sua forma, scintille divine. C’è stato un tempo in cui l’uomo era in armonia con il Tutto, così come accade, per un breve periodo della sua vita, all’individuo moderno. Succede quando si è bambini di sentire il potere che emana la Natura intorno, di percepirne il richiamo. Succede anche a Luna e a Leonardo, protagonisti del romanzo La voce nascosta delle pietre, due amici inseparabili durante l’infanzia e la prima adolescenza, sotto la guida del nonno Pietro, esperto conoscitore e cacciatore avventuroso di gemme preziose. Alla nipotina Luna, Pietro confesserà: “Le pietre sono vive e ci chiamano […] esercitano su di noi un’attrazione particolare, frutto della risonanza energetica che abbiamo con loro”. Così, attratti dal potere che sprigionano le pietre, di cui imparano a conoscere, anno dopo anno, caratteristiche, storie e leggende misteriose, Luna e Leonardo vivono avventure fuori dal comune, come la ricerca di frammenti calcarei, per loro preziosi, nei cantieri e tra i monti, fino a scoprire che esiste per ognuno una pietra giusta, “un’anima gemella che […] vibra della tua stessa energia” e che “dal momento in cui la indosserai, la pietra scatenerà il suo potere straordinario, legandosi a te in maniera indissolubile. E allora sarete inseparabili.” E Luna pensa davvero che Leonardo sia il suo diamante prezioso, l’anima gemella in grado di metterla sotto la giusta luce dove può brillare, fino a quando, una notte, la prima notte in cui dormono assieme, qualcosa si spezza per sempre fra di loro. Per tredici lunghi anni Luna non riuscirà più a sentire il richiamo delle pietre fino a quando, per una apparente casualità, non si ritrova davanti il suo compagno di giochi, nella bottega orafa di pietre del nonno in cui svolge l’attività di impiegata contabile. Il ritorno di Leo nella sua vita sarà il segnale di un totale scombussolamento nel precario equilibrio che è riuscita a crearsi, soprattutto con la relazione che la lega a Giulio, il quale, una volta ricomparsa la vecchia fiamma di Luna, chiede la mano della sua fidanzata. In quello stesso momento, ancora una inaspettata notizia turberà l’esistenza di Luna che si ritroverà ad affrontare per la prima volta un viaggio lontano da casa, negli inebrianti luoghi esotici esaltati dai racconti del nonno anni prima. Titubante e sconvolta, la “nuova” Luna dovrà scontrarsi con la Luna dei giorni andati e fare i conti con un passato che ha voluto cancellare per sempre. Lontana dalla sua ordinaria quotidianità, che ha eretto come gabbia di protezione dalla cocente delusione ricevuta, lontana da sua madre, donna apprensiva nei suoi riguardi, induritasi dopo l’abbandono da parte del marito, rimetterà assieme i pezzi del mosaico frantumato che era la sua vita prima del ritorno di Leo. Di nuovo accanto a lui, Luna rivivrà avventure emozionanti, esplorerà luoghi dalla natura palpitante vita, conoscerà persone che sanno come seguire il proprio cuore, e riprenderà a dare ascolto ai segnali che la vita continua a porgerle. “Sapete che cos’è il vero amore? […] È la persona che ci fa brillare. L’unica in grado di smussare gli angoli, in modo che la luce esalti tutta la nostra bellezza.” La storia che Chiara Parenti con La voce nascosta delle pietre regala ai suoi lettori è il racconto di un percorso di crescita interiore dei protagonisti, che imparano a rialzarsi dopo i duri colpi che la vita ha inferto loro durante la giovinezza, quello che contraddistingue gli eroi di tutte le fiabe, che questa volta imparano a districarsi nel mondo affascinante delle pietre. Ogni pietra nasconde un potere: l’agata infonde coraggio, l’acquamarina dona felicità, il granato promuove la fiducia in se stessi e così via. Questo concetto Parenti lo spiega nei brevi paragrafi che introducono ciascun capitolo che a sua volta si alterna al successivo, secondo uno schema temporale passato-presente, proprio come uno specchio in cui ogni personaggio si riflette per non smarrire la via; vuol significare che gli antichi richiami sono sempre in agguato e si rincorrono fra loro fino a quando non si è finalmente pronti a tendere l’orecchio per afferrarne il messaggio. E le pietre fanno da messaggere. Le pietre sanno aspettare, esse «vibrano, indipendentemente dal fatto che noi le sentiamo o no». E si impara a seguire la via che indicano quando si è realmente pronti. Così Luna riuscirà a trovare la propria felicità dopo aver imparato a stare da sola nel proprio sentiero ritrovato, quello della bambina che desiderava diventare una cacciatrice di pietre come suo nonno, la sua guida spirituale, il saggio che la accompagna con devozione e discrezione fino al raggiungimento dell’armonia interiore. A chi vuole immergersi nella magia della dimensione ammaliante e ancora poco conosciuta delle pietre, a chi desidera fermarsi ad ascoltare il richiamo dei propri sogni, a chi cerca la gemma che faccia da guida lungo il sentiero che porta alla felicità, La voce nascosta delle pietre di Chiara Parenti aiuterà a trovare le risposte.

La mia mamma è una sirena – Gemelli Giugno 2019

Giunta al portone di casa, Aminah si asciugò nervosamente la fronte umida con il polso e le piccole perle di agata bianca del braccialetto le lasciarono un profondo solco. La “Signora” quella mattina aveva davvero esagerato nel chiederle di lavare tutte le persiane fino all’ora di pranzo. Già alle prime luci dell’alba il cielo minacciava una giornata afosa. All’orizzonte, dalla finestra, mentre si portava la prima sigaretta della giornata alle labbra che ancora profumavano di caffè  appena sorseggiato, Aminah aveva intravisto le scie di foschia alzarsi sulle colline come funamboli disciplinati, in fila per l’allenamento quotidiano. La visione non l’aveva rassicurata ma, aspirando profondamente la sigaretta, si era detta che anche quella giornata le avrebbe insegnato qualcosa, nonostante l’ansia e la fatica che la assillavano negli ultimi tempi. Mentre spegneva la sigaretta nel posacenere ormai colmo, aveva lanciato lo sguardo alle sue unghie rovinate. Proprio non riusciva a indossare i guanti durante le incessanti pulizie del mattino, e la pelle delle mani era ruvida e indurita. Nella borsa portava sempre una crema idratante, ma poi dimenticava di cospargersela sulla pelle, lo stesso accadeva per il gel rigenerante per le caviglie gonfie. Troppe ore in piedi, troppa umidità le appesantivano le gambe e a sera faceva fatica a completare le faccende domestiche. Il disordine regnava ovunque nel piccolo appartamento in cui viveva, se avesse avuto il terzo occhio delle divinità indù, in quel periodo avrebbe chiuso anche quello. Sorridendo a quel pensiero e respirando profondamente, si era fatta coraggio per affrontare la mattina. “Siccome hai attraversato il deserto, a tutti sembra naturale che tu sia in grado di sopportare le alte temperature”, ripeteva furiosa fra sé quando si fermava sul pianerottolo di ogni piano. L’ascensore era guasto da settimane ormai, i condomini non si decidevano a chiamare il tecnico per non affrontare le spese dopo il conto salato della revisione annuale. Lei era affittuaria e pure in ritardo quel mese nel pagamento, di certo non poteva avere voce in capitolo sulla questione. Le buste della spesa che serrava a fatica tra le mani sembravano diventare sempre più pesanti, piano dopo piano. A un certo punto, mentre allentava la presa di uno dei sacchetti che pendeva sempre più verso il basso per le numerose bottiglie di acqua, questo si squarciò e le bottiglie rotolarono giù per le scale. Aminah tentò di agguantarne una al volo, ma subito la bottiglia scivolò alla sua presa umida e allora la donna si lanciò giù per le scale precipitosamente e il tacco del sandalo destro, dallo smalto scrostato, si impigliò nell’orlo della lunga gonna di cotone a stampe etniche facendola precipitare in discesa lungo tutta la rampa. Durante la caduta batté il ginocchio e si morse il labbro inferiore. Un modo davvero divertente per dare una svolta alla lunga giornata che aveva ancora davanti a sé, pensò ironica. Lentamente si fece forza sulle braccia e si tirò su. Si stirò la gonna spiegazzata massaggiandosi il ginocchio dolorante, poi si tamponò il labbro con le dita. Un leggero sapore metallico si diffuse all’interno della bocca, Aminah deglutì e subito un lontano ricordo le rabbuiò il viso. Era un’estate di molti anni prima, abitava ancora nella periferia rurale di Kano, dove la sua famiglia viveva di stenti in una bassa e maleodorante casa di fango, tra le anguste vie del perimetro murario dell’antica città. Suo padre era un muratore e sua madre cresceva lei e i suoi tre fratelli più piccoli. Aveva quattordici anni Aminah quell’estate e tutte le notti nel suo letto sognava di diventare una giornalista che raccontava al mondo quello che accadeva nella profonda Africa. Così, quando quel pomeriggio un capannello di vicini si era formato fuori dal cortile della sua abitazione, spinta dalla vivace curiosità che le apparteneva, si era precipitata ad ascoltare. La figlia di Mansur piangeva sommessamente mentre suo padre la trascinava davanti a un uomo alto, dall’abbigliamento occidentale: polo bianca e pantaloni di lino color cammello. Mansur gli porgeva una busta e con espressione dura si rivolgeva alla ragazza intimandola a seguire lo straniero. Aminah capì tutto: Kamil, il suo amico e compagno di giochi sin dall’infanzia che adesso lavorava come meccanico in città, le aveva raccontato degli agenti di viaggio che procuravano passaporto, visto e biglietto aereo per l’Europa, dove le ragazze vendute dalle famiglie avrebbero lavorato e mandato i soldi in Nigeria. Il ragazzo le aveva anche spiegato che la sorte di quelle ragazze era segnata per sempre: sarebbero finite a svolgere “brutti” lavori e non sarebbero più tornate. Aminah provò un forte brivido dinanzi alla scena e un impeto di sdegno e rabbia le salì in viso. Alle sue spalle sua madre la trattenne, conoscendo bene il senso di giustizia che animava la figlia. La ragazza allora si acchetò, ma provò una grande vergogna per essere rimasta inerte e in silenzio. Dopo cinque anni anche lei e Kamil avrebbero lasciato Kano, ma con la promessa di un lavoro onesto e la speranza di non separarsi mai. Dopo un’estenuante attraversata del deserto, in cui avevano creduto di non farcela più volte, tra minacce e indicibili pericoli, erano giunti sulla spiaggia dove li attendeva un gommone. A loro due era destinato il posto ai lati, era stato Kamil a chiederlo, perché quello centrale era il più rischioso: in caso di perdita di carburante si sarebbero ustionati. Prima di salire sull’instabile imbarcazione, davanti al mare, stretti in un forte abbraccio, Aminah e Kamil avevano pregato a lungo. E adesso Kamil aveva infranto la promessa, lasciandola sola con il loro figlio, alla ricerca di un nuovo lavoro e lei non sapeva dove fosse e quando sarebbe tornato da lei. Con le bottiglie strette al petto, circondate dal braccio sinistro, Aminah infilò la chiave nella toppa con la mano libera, poi con un piede si aiutò ad aprire il più possibile la porta e subito la calura l’assalì. La luce proveniente dalle finestre chiuse inondava il piccolo salotto, creando un asfissiante effetto serra. “Hassan! Hassaaan!” urlò mentre posava le bottiglie sul divanetto dalla fodera sdrucita. All’improvviso una testa riccioluta sbucò dalla porta del cucinotto. “Mamma, perché urli?” “E tu perché hai chiuso tutte le finestre? C’è un caldo infernale in questa casa!” “Va bene, va bene, adesso le riapro, non innervosirti! Lo sai che ci sono le api intorno alla magnolia del giardino e io ho paura delle api.” E così dicendo si precipitò a riaprire la finestra. Allora Aminah si liberò del turbante zuppo di sudore e si avvicinò al ragazzino. Lo aiutò nel compito, poi lo attirò a sé furtivamente. “Vieni qui, cucciolino!” “Non sono più il tuo cucciolo, dai non fare così!” rispose Hassan cercando invano di svincolarsi dall’abbraccio della madre che minacciava di solleticarlo e lui il solletico proprio non lo sopportava. Le allegre risate si diffusero per la stanza mentre un leggero refolo di vento sollevava i lunghi riccioli ribelli di Aminah. Qualcuno suonò al campanello. Hassan approfittò della distrazione di sua made per sgattaiolare nella sua cameretta e riprendere in mano il game boy. “Chi è?” chiese Aminah avviandosi alla porta mentre si ravvivava la folta chioma. “Sono io, Teresa” si sentì rispondere fiocamente. Allora Aminah, girando la chiave, aprì e fece accomodare con premura l’anziana vicina. “Ti preparo un caffè?” chiese col suo accento italiano incerto. “Non darti pena, mia cara, sei già tanto stanc… ohhhh ma che t’è successo al labbro? Hai del ghiaccio da metterci su? Penso si stia gonfiando…” Aminah sorrise dolcemente alla donnina premurosa che le sedeva accanto. Teresa era una vicina disponibile e affettuosa. Sin dal loro trasferimento nel condominio aveva accolto lei e la sua famiglia con estrema gentilezza, mettendosi a disposizione in ogni momento. Aminah era ricorsa spesso al suo aiuto quando Hassan era ancora un bambino e si ammalava sovente. Così, mentre lei lavorava, Teresa lo accudiva generosamente. “Un piccolo incidente, come dite voi?” rispose sfoderando un largo sorriso. La sua bocca ampia, dai denti candidi e perfetti conquistavano ogni volta Teresa, che in lei vedeva una nuova nipote, visto che le sue erano tutte al Sud e non era riuscita a seguire la loro crescita da vicino. Aminah sentì la fresca mano di Teresa sulle sue guance e inarcò il viso nelle scapole chiudendo gli occhi. Era lieve il suo tocco, ma intensamente dolce. Si lasciò coccolare per alcuni secondi, poi riaprì gli occhi e confessò: “Sono stanca Teresa, stanca di girare come una trottola giorno e notte, non riesco a fermarmi per un attimo a pensare a me, anche solo per una doccia rilassante che duri più di due minuti! I soldi non bastano mai da quando Kamil è andato via e io vivo nella paura che il padrone di casa un giorno ci cacci via!” Il tono della voce cominciava a incrinarsi in pianto. Allora Teresa le prese le mani fra le sue e lanciandole un’occhiata decisa, dichiarò: “Anche a noi qui non ci volevano. Non ci affittavano le case perché dicevano che eravamo sporchi, che le case le rovinavamo. Vietato affittare ai terroni, ci dicevano sbattendoci le porte in faccia. Ma poi, pian piano, hanno imparato a conoscerci e a chiamarci grandi lavoratori. Noi non abbiamo mai avuto paura della fatica, noi lavoravamo in campagna sin da bambini, in casa badavamo ai fratelli più piccoli e quando siamo arrivati qui, andavamo a servizio dalle signore e stavamo con i loro bambini. Hanno capito che non tutti sono sporchi, disonesti e fannulloni. Ci vuole tempo, mia cara, vedrai, presto capiranno che siete brave persone anche voi.” Le parole rassicuranti della vicina sollevarono per un attimo Aminah. Teresa era un Loa buono, uno spirito della sua tradizione che lei paragonava agli Angeli, presenze mandate dal cielo per soccorrere i bisognosi, un raggio di luce nella notte buia a indicare la via. “A che ora cominci il turno, stasera, al ristorante?” Teresa la distolse dai suoi pensieri. “Alle 18.30, purtroppo, e neanche stasera riuscirò a cenare assieme a mio figlio”, rispose desolata Aminah. “Posso restare io a fare un po’ di compagnia ad Hassan” si propose l’anziana donna. Gli occhi di Aminah si inumidirono e per risposta ebbe un forte abbraccio per il suo tenero Loa italiano. Divincolatasi, si confidò: “Mi sento tremendamente in colpa verso Hassan, passo così poco tempo con lui ormai e lui resta solo in casa, non ha neanche più voglia di giocare a pallone con i suoi amici ai giardini. Ho paura che mi sfugga qualcosa di lui…” “Devi stringerlo forte a te, il tuo bambino, è lui la tua forza. Lui sa che tu ci sei, anche se lavori tanto in questo periodo. Lui cresce bene con gli esempi che sai dargli, il tempo te ne darà conferma”. Teresa con le sue parole piene di saggezza, pronunciate con tono deciso, riusciva sempre a sollevarle il morale, e a lei bastava poco per rialzarsi. Il sorriso era la sua arma contro le avversità. Spesso l’avevano accusata di leggerezza, ma in realtà il suo era una sorta di rito magico, proprio come diceva a suo figlio: “Se tu sorridi, tutto il creato ti sorriderà!” L’orologio sul muro sverniciato dell’angusto cucinotto segnava ormai le 18:00. Fra pochi minuti Aminah si sarebbe incamminata, attraversando il paese sotto il sole ancora cocente, verso il ristorante in cui avrebbe trascorso sei lunghe ore a lavare piatti e sistemare la cucina. Decise di sgranocchiare qualcosa prima di uscire. Dalla credenza tirò fuori un enorme pacco di patatine, lo aprì con foga e cominciò a divorare il cibo, imbrattandosi le labbra di unto e di sale. Buttava giù avidamente i bocconi e nel frattempo si rammaricava per non riuscire a limitarsi. In quel periodo mangiava voracemente tutto ciò che le capitava sotto tiro. Più mandava giù e più le sembrava di placare l’enorme voragine di paura e solitudine che provava nelle ultime settimane. Era difficile contenersi, non voleva proprio farlo. I fari della sgangherata Rénault grigia di Syltana si spensero davanti al cancello del condominio. Una mano ingioiellata di anelli e bracciali tintinnanti accese la luce interna e l’abitacolo si illuminò. La giovane dominicana porse ad Aminah il pacchetto delle sigarette, questa ne estrasse una, se la portò alle labbra mentre l’amica prontamente gliela accendeva. Così le due donne si gustarono l’ultima sigaretta della giornata. “Ci pensi mai a tornare al tuo Paese, Aminah?” “No, mai. Il futuro per mio figlio è qui.” “Almeno tu hai un affetto a cui aggrapparti…Io penso agli occhi di mia madre mentre mi saluta pensando che forse non mi avrebbe più rivista. Ma io ci tornerò al mio Paese, per rivedere i suoi occhi illuminarsi ancora. Ogni notte, prima di addormentarmi, la vedo mia madre e ha uno sguardo spento.” Aminah posò la sua mano su quella della collega gentile che ogni sera la riaccompagnava a casa. Era un rito l’ultima sigaretta, il momento delle loro confidenze. “Fai bene Syltana a sperare, le cose cambiano, non sempre in peggio.” E così dicendo strappò un sorriso alla ragazza, che le aprì la portiera e le augurò la buonanotte. Aminah entrò in casa silenziosamente. Lasciò per un attimo la porta dell’ingresso aperta, approfittando della luce accesa delle scale, in modo da riuscire a togliersi le scarpe e infilare finalmente i piedi nelle comode ciabatte. Poi richiuse la porta cautamente e corse verso la camera di suo figlio. I riccioli bruni e increspati di Hassan erano riversi sul cuscino a incorniciargli il viso angelico. Le palpebre chiuse, dalle lunghe ciglia di velluto, proteggevano lo sguardo vispo che suo figlio lanciava al mondo sin dalla nascita. Le sue incessanti domande, i perché a cui spesso non aveva saputo dare risposte, ma che con la sua innata fantasia aveva cercato in qualche modo di risolvere, i suoi piccoli gesti di generosità quotidiana, il suo incessante impegno nello studio, la caparbietà con cui portava a termine i suoi impegni erano per lei la ricompensa delle fatiche che affrontava da sempre. Indugiò in furtive carezze sulla fronte imperlata di sudore di Hassan e sulle mani dalle unghie mangiucchiate, poi decise di tirare sù, sulle esili gambe da gazzella, il lenzuolo di lino. Un leggero fruscio attirò la sua attenzione e lo sguardo le cadde sul pavimento dove era scivolato un foglietto piegato in quattro parti. Aminah si chinò per raccoglierlo e, dopo aver esitato alcuni secondi, decise di spiegarlo. “Quando la bacio, la mia mamma profuma di mare perché la mia mamma viene dal mare. A volte penso che lei sia una sirena, perché vive sempre con la testa e le braccia sulla terra, ma la sua vera casa è il mare e nel suo mare ci sono tanti pensieri che formano un regno tutto da esplorare.”    

Il giardino degli oleandri di Rosa Ventrella

Edito da Newton Compton Editori nell’ottobre 2013, Il giardino degli oleandri è una saga familiare che coinvolge e trascina il lettore in un labirinto, le cui pareti riecheggiano delle voci di un passato che unisce il filo di una generazione antica a una più attuale, e rafforza la convinzione che il risveglio femminile valica i confini della storia.
“Le storie erano tante, a volte diverse, a volte sempre uguali ma tutte iniziavano nel lontano 1938. Tutte parlavano di una casa e di un giardino. Tutte parlavano di un oleandro in fiore.” Se nel linguaggio dei fiori l’oleandro simboleggia l’oblio, Rosa Ventrella, nella scelta del titolo del suo romanzo, Il giardino degli oleandri, esorcizza questo significato grazie alla forza prorompente dei ricordi. La memoria di antiche antenate, il cui sangue continua a scorrere nelle vene dei discendenti, non può piegarsi al fluire del tempo, resta viva nelle parole di chi decide di trascrivere quelle storie lontane, che si affacciano prepotentemente alla mente, accarezzando la fantasia con immagini, suoni e colori. Dal 1938 ai giorni nostri, la vicenda narrata è ambientata in Puglia che, fra i suoi variegati paesaggi multicolori, dal blu del mare al verde dei boschi e degli uliveti secolari, fino al viola delle susine e dei mirtilli selvatici, nasconde segreti e manie di un’antica famiglia che ruota intorno alla figura della Margiala. Il suo vero nome in realtà è Anita, ma tutti la conoscono con quel nomignolo dialettale che in alcune parti della Puglia indica una donna dotata di poteri taumaturgici, in grado di lenire malanni, ricorrendo a erbe e a formule per eliminare, ad esempio, il famoso malocchio, e di assistere le donne durante il parto. Trasferitasi da Cerignola a Carbonara dopo il matrimonio, nel giardino della casa in costruzione pianta, assieme al marito Agostino, un oleandro, destinato a crescere e poi a venir estirpato dalla stessa Anita in un eccesso d’ira, per poi rinascere triplicato, e ogni volta quel giardino sarà testimone delle inquietudini notturne della donna, e in futuro della figlia minore Diamante. La trama ne Il giardino degli oleandri è tutta al femminile. Le protagoniste della storia sono infatti le tre figlie della Margiala: Rosetta, bella e amata dalla madre per il suo temperamento obbediente e il portamento elegante, Cornelia, più taciturna e sempre afflitta nella ricerca dell’approvazione da parte di Anita, e Diamante, dal fisico nerboruto e dalla folta chioma bruna, dai riccioli ribelli, simbolo di un’indomita smania interiore. La stessa Margiala nasconde una natura selvaggia dentro sé che la spinge, nei pomeriggi della calda stagione, a lanciarsi in urli liberatori nella campagna solitaria per sfogare un’antica frustrazione, sopita nell’animo delle donne. La voce narrante è quella di Diamante che, sia prima da bambina, sia poi da adulta, è sempre perseguitata dalle sue incertezze sul futuro, perennemente tormentata dal dramma dell’essere nata donna, condizione che la penalizza in una società che ha deciso a priori la sorte del genere femminile. Sorpresa dal menarca, incapace di accettare quel momento di trapasso come un evento naturale, si ritroverà a domandarsi a che scopo le donne siano state create per provare dolore. A differenza del fratello maggiore Giuseppe, il suo posto è adombrato dal timore di dover essere soggetta alle decisioni altrui. In un’epoca in cui alla donna capita di essere vittima di rapimenti e violenza per poi essere costretta a sposare il fautore di quel gesto per difendere l’onore, Diamante sogna di essere libera di decidere, di scappare, di scegliere il suo amore. Attirata per natura dai contrasti, è legata da un rapporto ambivalente alla madre, donna risoluta e impassibile, dotata di un forte senso pratico, che la vorrebbe più posata e interessata ai suoi poteri “stregoneschi” per poi ereditarli, così come è accaduto a lei. Si ritroverà presto ad affrontare più volte il dolore, come quello che lacera il cuore provocato dalla morte, per poi scoprire la natura selvaggia e dirompente di una passione che segnerà, fino a rovesciare del tutto, il futuro agognato. Piegata al suo destino di custode della Margiala, non smetterà mai di provare quell’impulso ribelle che la caratterizza e che la metterà di fronte a una scelta in grado di cambiare infine la sua sorte. Da un punto di vista stilistico lo scorrere degli eventi si carica di emozioni nel momento in cui l’autrice interpone alla cronaca dei fatti le riflessioni di Diamante, marcate da prese di consapevolezza universali, e riporta all’orecchio del lettore più attento quell’eco ancestrale che lega come un invisibile e indissolubile filo le donne, tutte, in una storia infinita. Particolare attenzione, in questa analisi, merita la figura carismatica di Anita. Se secondo la tradizione mitologica si è soliti attribuire alla donna definita in un certo senso “strega” caratteristiche come solitudine e anticonformismo, la Margiala della Ventrella (in realtà più una guaritrice che si rifiuta di eseguire riti d’amore o fatture e che oltretutto è un personaggio realmente esistito, in quanto si tratta della bisnonna della stessa autrice) si distingue per il suo essere sempre presente a se stessa, donna pratica e irremovibile, che cela dentro di sé il timore di perdere il controllo sulla realtà, quella dimensione familiare che vorrebbe rendere inattaccabile dagli eventi del mondo esterno. Simboleggia pertanto un modello femminile vittima di una repressione interiore, ancora ben lontano da quello impavido che aveva contraddistinto le femministe del resto d’Italia all’epoca degli eventi narrati. La Puglia della Ventrella viene dipinta come una terra dove il tempo si è fermato; anche la stessa guerra che rovescia le sorti della popolazione abituata a ritmi più regolari e pacati, viene analizzata sempre da un punto di vista femminile perché le donne la loro guerra la fanno a casa, nell’attesa, nella loro battaglia quotidiana alla sopravvivenza di una vita parca di risorse e di affetti. In realtà, leggendo accuratamente fra le righe, è possibile cogliere, sia nelle reazioni inaspettate di Rosetta in seguito al matrimonio sia nella scelta finale di Diamante, i semi che Anita, forse senza volerlo, ha sparso dietro di sé, e che generano, nel tempo, i frutti di una nuova stirpe femminile, conscia dei propri desideri più nascosti e capace di realizzarli fino in fondo.
L’autrice Rosa Ventrella ha pubblicato con Newton Compton Il giardino degli oleandri, Innamorarsi a Parigi e Storia di una famiglia per bene, in corso di traduzione in diciassette Paesi. L’ultimo romanzo, La malalegna, è stato pubblicato per Mondadori. Crediti foto: https://www.amazon.it/l/B06W55JWQB?_encoding=UTF8
   

Paura di volare di Erica Jong

Una donna che osa è una donna libera di volare. “Dagli albori della storia fino a oggi i libri sono stati scritti con lo sperma, non col sangue mestruale.” Pubblicato negli anni della rivoluzione sessuale, Paura di volare della scrittrice americana Erica Jong non smette mai di essere attuale e di attirare un pubblico di lettrici alla ricerca di se stesse, perché in esso vi ritrovano verità profonde, un’eco al risveglio di quell’inesplorato Io autentico che è il proprio inconscio, abituate a tenerlo sepolto nel timore di percepire un’inarrestabile spinta verso l’alto, fino a sentire spuntare le ali. Non a caso il cognome della protagonista, disinvolta antieroina della letteratura, è proprio Wing, che in inglese vuol lire ala. La protagonista, Isadora Wing per l’appunto, è una poetessa di 29 anni che ha alle spalle la pubblicazione di due libri di poesie erotiche, una carriera di insegnante universitaria, una famiglia ebrea borghese e, soprattutto, una collezione di storie amorose bizzarre e insoddisfacenti. Dopo essersi separata dal suo primo marito, sposato in giovane età e rivelatosi uno schizofrenico che si sentiva la reincarnazione di Cristi in terra, si è legata a un freddo psicanalista freudiano cinese, dopo essere passata da una relazione all’altra, sempre incompleta. Nonostante sia una donna sposata, non smette di sognare la “scopata senza cerniera”, una relazione lampo, è il caso di dirlo, priva di coinvolgimento sentimentale. “Mi limito a fantasticare continuamente sulla scopata senza cerniera. La scopata senza cerniera è molto di più di una scopata pura e semplice. È un ideale platonico. Senza cerniera perchè al momento buono le cerniere cadono come i petali di una rosa sfiorita, la biancheria si sparge nel vento come la bambagia di un soffione. Le lingue si intrecciano e si liquefanno. L’anima scivola come un sospiro nella lingua e poi nella bocca dell’amante. Nella vera scopata senza cerniera, in quella di prima categoria non si arriva mai a conoscere l’uomo. Un’altra delle condizioni della scopata senza cerniera è la brevità. E anche l’anonimità: l’anonimità è il massimo.” 
La copertina di “Paura di volare” di Erica Jong.
Le vicende prendono l’avvio durante il volo della protagonista, assieme a suo marito e a uno stuolo di psicoanalisti di diversi orientamenti, verso Vienna, dove si terrà un rinomato convegno di psicoanalisi. Il pubblico sorprende Isadora alle prese con la sua più grande fobia, la paura di volare, che si rivelerà presto un timore fuor di metafora, reale, di spiccare il volo nella sua vita, sia in ambito professionale che sentimentale. Nonostante la sua avvenenza, l’intelligenza l’intuitività, Isadora è insicura, come tutte le donne non si crede mai abbastanza. “Tutte le donne credono di essere brutte, anche le più carine. Un uomo che capisse questo potrebbe scoparsi più donne di Don Giovanni. Tutte credono di avere un sacco di difetti. Tutte pensano di avere il sedere troppo grosso, i seni troppo piccoli, le cosce troppo grasse, le caviglie troppo spesse. Anche le modelle e le attrici, anche le donne apparentemente così belle da non doversi preoccupare di niente passano il tempo a preoccuparsi.” Durante il soggiorno austriaco, Isadora incontra Adrian, psicoanalista langhiano, dall’apparenza libertina e disinibita, verso il quale proverà un’attrazione irresistibile, al punto da abbandonare il marito e seguirlo in un viaggio ricco di avventurose peripezie in giro per l’Europa. Qui, dopo un primo momento di entusiasmo e senso di vaga libertà, farà nuovamente i conti con le proprie angosce, fino a scoprire che in realtà l’ambita libertà di una donna non va cercata nell’amore, ma in se stessa, nella propria capacità di saper scegliere, lontana dall’illusione di riempire la propria solitudine con il matrimonio. Il finale del testo è aperto, Isadora torna da suo marito e la narrazione si conclude poco prima che i due si ritrovino faccia a faccia, scelta dell’autrice che sottolinea il trovato coraggio della protagonista di affrontare un momento così cruciale. “ Ma che cosa non andava nel matrimonio? Anche se si ama il proprio marito arriva inevitabilmente il momento in cui scopare con lui è come mangiare un formaggio alla panna: riempie, ingrassa perfino, ma niente sapori eccitanti, niente gusto dolce-amaro, niente pericoli. E quello che si vuole invece è un pezzo di Camembert stagionato, un caprino di quelli rari: succulento, cremoso, piccante. Io non ero contraria al matrimonio. In realtà ci credevo. Era necessario avere un amico sincero in un mondo ostile, una persona con la quale essere solidale in qualunque circostanza, qualcuno che fosse solidale con te in qualunque circostanza. Ma tutti quei desideri che dopo un po’ il matrimonio non riesce più a soddisfare? La smania, il desiderio, il sangue che pulsa nelle viscere, nella figa, la voglia matta di essere riempita, chiavata in ogni buco, la voglia di champagne secco e baci umidi, del profumo delle peonie in un attico in una notte di giugno, della luce alla fine del molo in Gatsby…non proprio di queste cose, ma di quello che queste cose evocano.” La pubblicazione del libro in America nel 1973, seguita un anno dopo in Italia, suscitò scalpore tra i critici, al punto che giornalisti si rifiutarono di presentarlo nel timore di scandalizzare la nazione bigotta e puritana. Oggi, a distanza di oltre quarant’anni, può apparire superato in alcuni concetti, ma non in preconcetti. Quante donne si sentono pienamente soddisfatte del proprio fisico e della propria posizione sociale o delle proprie scelte d’amore? Sono davvero libere le donne da se stesse? Se in questo libro potrete dissentire dallo stile spesso scurrile con espressioni colorate alle quali l’autrice sembra essere ricorsa per fare il verso a colleghi contemporanei declamati dalla critica, per evidenziare come in fondo anche una donna può dare piglio in totale libertà e autentica onestà a una propria opera, non potrete non apprezzare quella forza prorompente che spesso, per inutili timori, risultato di perbenismo e tradizioni, soffoca rischiando di restare a terra a osservare il cielo, invidiando la libertà degli uccelli in volo.
Nel 2013 Erica Jong ha pubblicato “Paura di morire”, del quale ha detto: “È la storia di una donna sposata che va in cerca di altri uomini per sentirsi giovane. Ma scopre che sono tutti pazzi, si rende conto che ha queste fantasie ma non corrispondono alla realtà. E capisce che ama suo marito.”

Un seme lontano dal terreno – Toro maggio 2019

La pioggia scrosciava ritmicamente allo smottamento delle tegole sulla sommità della vecchia casetta in pietra di campagna. “Il tetto va riparato”, aveva detto mio nonno con sguardo inflessibile, accentuando il tono ruvido della voce prima che mi rifugiassi nella decadente e sperduta abitazione rocciosa. Dopo quelle parole, non aveva voluto più parlarmi. Così, vedendolo arrivare nella sua vecchia Ape 50 dalla scrostata vernice turchese tenue, che sballottava su per i sassi lanciando per aria schegge di ghiaia mentre si ingolfava nei tratti di terreno bagnato, mi ero immediatamente allarmato. Ero allora corso ad accoglierlo sotto l’ombrello sgangherato, tirato fuori con urgenza dal vecchio portaombrelli rivestito in rame blister, dimenticato nell’angolo dell’ingresso da sempre, almeno così ricordavo. Dopo aver sbatacchiato l’instabile portiera del vecchio catorcio, senza lanciarmi ancora alcun saluto, allontanando con un gesto brusco l’ombrello che gli porgevo e lasciando che la pioggia gli inzuppasse i radi capelli bianchi, aveva scoperchiato il telo tenuto fermo dalle sdrucite corde elastiche che avvolgeva il lungo pianale, tirandone fuori un vecchio fiasco di vino impagliato e una sporta che conteneva, senza ombra di dubbio, roba da mangiare. “Vigna piantata da me, gelso da mio padre, olivo da mio nonno”, con questo detto tatuato sul cuore ero cresciuto tra paese e campagna, con la parentesi da pendolare nel capoluogo pugliese durante gli anni universitari. “Dottore in lettere, auguri!” mi avevano detto i parenti intervenuti alla seduta di laurea nel torrido pomeriggio di fine giugno, stampandomi schioccanti baci di orgoglio. “E adesso chi gliele darà le ripetizioni di italiano ai miei figli, se tu sarai impegnato a insegnare?” si era lamentata la vicina di casa. “Stai tranquilla, Ninetta, non lavorerò così presto, avrò tutto il tempo per dare ancora ripetizioni”, avevo risposto prontamente. Sapevo che tutti si aspettavano che imboccassi la strada dell’insegnamento. “Un posto statale, fisso e ben retribuito”, mi ricordava sempre mia madre, ma non avevo mai avuto il coraggio di confessarle che per poter insegnare mi sarebbero voluti ancora anni di studio e, soprattutto, altre tasse da pagare. Non bastavano più anni di studio e il fatidico pezzo di carta, adesso bisognava specializzarsi seguendo una serie di percorsi formativi, sostenere un esame finale e, solo se superato, poter essere ammessi alle graduatorie provinciali dei docenti. A me piaceva studiare da sempre. Ricordo che sin da bambino sparivo per ore da casa o in campagna, ma nessuno si preoccupava di cercarmi, sapevano tutti che ero in giro sulle panchine dei solitari giardini del centro storico o arrampicato su qualche albero a leggere e che sarei tornato con i miei pesanti libri sotto il braccio, l’espressione corrucciata e lo sguardo assorto. La Storia per me era importante, proprio come mio nonno mi ripeteva in campagna frantumando le aride zolle fra le mani. “Vedi Lucio, queste sono le nostre radici. Siamo terra, dura e fragile. Testardi come muli noi gente del Sud, ma dal cuore tenero.” E subito partiva con i suoi racconti della dominazione bizantina dei luoghi, portandomi via dal centro abitato per raggiungere la necropoli ai piedi del sito archeologico dell’antica zona di Petra Magna ed entrare nella cripta rupestre del Padre Eterno nella cui unica navata erano stati rinvenuti affreschi risalenti al XII secolo. “Eravamo schiacciati un po’ dall’Impero d’Oriente e un po’ dall’Impero di Occidente, ma ad avere la meglio erano sempre i Saraceni in quel periodo, avevano via libera in queste terre e così abbiamo preso pure da loro.” “Ma tu nonno, come le sai tutte queste cose, se a scuola non ci sei andato?” “Da Don Mimmo le ho imparate. Da piccolo scappavo sempre nella chiesa perché Don Mimmo era bravo con i bambini, ci dava da mangiare e poi ci raccontava la storia del paese. Mia madre mi picchiava quando rientravo, perché avevo lasciato i fratelli piccoli in casa da soli mentre lei era in campagna ad aiutare mio padre, ma io volevo sapere sempre come andavano a finire le storie di Don Mimmo.” Erano quelle le rare occasioni in cui vedevo attraversare un bagliore di allegria nel suo sguardo. Non riuscivo a immaginarmelo bambino. Da quando lo conoscevo, la sua espressione era sempre stata seria e severa, al punto che da piccolo mi ero convinto che mio nonno fosse nato già con la faccia da adulto. Ero rientrato da circa tre settimane dalla Germania, dove avevo servito caffè e coni gelato ai clienti di un bar situato in un piccolo centro commerciale. Correvano tutti, dalle prime ore dell’alba a sera, un viavai continuo di piccole teste che diventavano tanti puntini sovrapposti uno sull’altro quando mi affacciavo alla ringhiera del piano in cui lavoravo. “Schnell! Schnell!”, mi urlavano alle spalle appena mi concedevo alcuni attimi di pausa, durante i quali la mente volava ai versi dedicati al natio borgo: “… allora Che, tacito, seduto in verde zolla, Delle sere io solea passar gran parte Mirando il cielo, ed ascoltando il canto Della rana rimota alla campagna!” In quella città dove non riuscivo a vedere mai spuntare il sole, rinchiuso per ore nell’affollato centro commerciale, sentivo solo il fastidioso gracidio di frasi esortanti al lavoro incessante. Dai lunghi pomeriggi in cui non contavo mai le ore, chino sui libri di scuola, al suono assillante della sveglia alle prime luci dell’alba, dal profumo della carta stampata invecchiata degli antichi tomi della biblioteca, all’aroma dei fondi del caffè bruciato, dal principio aristotelico che il meraviglioso è essenziale alla poesia epica, al principio di realtà di un’epopea che non prometteva imminenti sbocchi di riuscita professionale. Mi ero illuso che avrei imparato presto il tedesco e sarei riuscito a iscrivermi al dottorato di ricerca sulla poesia romantica, come mi aveva accennato il professore col quale avevo discusso la tesi. Ma il suono aspro, rauco e gutturale di quella nuova lingua mi impediva di concentrarmi sulle innumerevoli regole grammaticali, appesantendo il mio stato d’animo che desiderava solo volare via, e in fretta, da quel posto. “Il tempo di alcuni mesi e poi torno”, avevo detto agli amici e ai parenti che erano venuti a salutarmi con abbracci sconsolati. Quando qualcuno della famiglia parte, è sempre un dispiacere sapere che non lo si incontrerà da un momento all’altro per le strade del paese o in occasione dei magnifici conviti, è sempre uno strappo al cuore lasciare andare via una parte di te. Ma sarebbe stato per poco. E invece io lì ci avevo trascorso quasi tre anni, facendo ritorno di rado e in gran discrezione, proprio per evitare gli assalti dei parenti nei pochi giorni di permesso a disposizione. Il tedesco alla fine lo avevo imparato, ma il dottorato non lo avevo mai iniziato. Mi ero fatto crescere la barba, folta, ispida e nera come quella che un tempo portava con orgoglio mio nonno, e avevo perso alcuni chili. Divorato dall’ansia per il futuro incerto, assalito dal timore di non arrivare mai a fine mese perché le spese dell’affitto lievitavano ogni anno, avevo fatto finalmente rientro a casa fiacco nell’animo, ma con un barlume di speranza ancora vivo nello sguardo. Avevo subito fissato l’appuntamento con il professore che in quegli anni mi aveva inviato appunti da tradurre per le sue pubblicazioni. La sua rapida stretta di mano e le parole incerte mentre tentava di incoraggiarmi verso l’insegnamento, mi avevano impedito di insistere con la richiesta per il dottorato. Non so dire bene se si era trattato di delusione o di disincanto, ma uscito dal palazzo dell’Ateneo avevo attraversato a passi rapidi e nervosi la prima parte dei giardini non recintati di Piazza Umberto I, scansando con fare irritato i passanti che lungo il viale pedonale si attardavano presso le aiuole a chiacchierare comodamente, prima di raggiungere Via Sparano e lanciarsi nelle compere. Ignaro di quanto accadevo intorno a me, mi ero ritrovato davanti alla facciata principale, bicolore, del Teatro Petruzzelli in Corso Cavour. Alzando lo sguardo verso la struttura che la città aveva atteso a lungo prima di vedersela restituire nel suo nuovo splendore, avevo cominciato a imprecare. Mi avevano insegnato che la pazienza è la virtù de forti, e invece adesso scoprivo che la pazienza mi aveva ingannato. Tornato al paese, avevo raccolto poche cose e avevo annunciato con tono deciso che mi sarei trasferito per un po’ di tempo in campagna, da solo. Gli ulivi là fuori, con i loro tronchi dalle forme spiralate che parevano anime dannate ammucchiate l’una sull’altra, inginocchiate a implorare perdono perché più bell’inferno non c’è in una terra dove “nel golfo c’è puzza di zolfo, che sta arrivando il demonio” e le zolle del terreno dure e solide sotto i piedi, mi riportavano  alle giornate di sole e di raccolta degli autunni del sud, quando il sole acceca ancora a mezzogiorno e il vociare degli operai, reperiti tra parenti sempre disponibili e amici alla ricerca di qualche fusto di zinco per la scorta annuale, addolciva la stanchezza della levataccia alle prime ore dell’alba con la sua brezza pungente. Era un rito la raccolta delle olive. Mio nonno me lo rammentava in continuazione che l’olio è sacro sin dall’antichità. “Non solo nutre e impreziosisce gli alimenti” asseriva saggiamente “ma l’olio serve ad ardere il lume che ci tiene svegli al buio, ricordalo nipote mio.” E ancora: “L’olio cura. Se metti un rametto di ruta nel vasetto pieno d’olio, questa sprigionerà i suoi poteri e allontanerà i vermi dal tuo ventre.” Poi a primavera, il sabato precedente alla domenica delle palme, mia madre si faceva portare dalla campagna una sacca di rametti di ulivo per decorarli d’oro e d’argento. “Così la casa risplende di pace”, m diceva mentre me li porgeva al mattino prima di recarci insieme alla Messa. “Adesso li facciamo benedire e staremo tutti in grazia di Dio.” E in quel sorriso vedevo risplendere l’autentica gioia che solo le parole di una madre sanno trasmettere. Tra le sue braccia, robuste e solide come i tronchi di un ulivo, trovo riparo ancora oggi che sono diventato un uomo. “Nessuno ti capisce meglio di una madre” mi sussurrava ancora all’orecchio quando andavo a trovarla e, prima di accomiatarmi da lei, aspettavo l’ennesima raccomandazione urlata dalla finestra: “Copriti la gola, che la sera scende l’umidità.” E, accarezzandomi il collo, le lanciavo un bacio dal portone, poi abbassavo lo sguardo sul lastricato fuori dall’arco dove avevo già mosso i passi a grandi falcate. Il centro storico a sera era ormai gremito di passanti, specie in estate, dove i turisti si accalcavano in visita agli scorci suggestivi declamati ormai dalle agenzie viaggi e dalle assillanti pubblicità in televisione. Tutti pazzi per la Puglia, da qualche anno i turisti giungevano dalle varie regioni d’Italia, persino da quelle limitrofe meridionali. Le inflessioni dialettali si mescolavano per le strade in una Babele assordante che si acchetava solo alle prime luci dell’alba. La prima volta che mio padre mi aveva portato a raccogliere le olive, avevo sei anni. “Ti devi alzare presto, Lucio, domani mattina.” “Quando è ancora buio, papà?” Sì, quando è ancora buio.” “Ma come facciamo a camminare se non si vede ancora il sole?” avevo chiesto spaventato. Sotto la fioca luce della lampadina elettrica penzolante dal soffitto sverniciato dell’angusta cucina del vecchio appartamento che condividevamo con i nonni, avevamo consumato una ricca colazione di pane e pomodoro e mio padre aveva anche mandato giù un bicchiere di primitivo dell’anno precedente, quello nuovo non era ancora pronto. Avevo fatto fatica a mangiare così presto, quella mattina, gli occhi ancora stropicciati dal sonno e la paura del buio mi impedivano di credere, così come mi aveva detto mio padre sere prima, che mi sarei divertito a raccogliere le olive. Pensavo a come avrei fatto ad arrampicarmi sull’instabile scala di legno sulla quale mio nonno saliva con grande agilità. Mia madre lo rimproverava, urlandogli che prima o poi sarebbe caduto rompendosi il femore, ma lui rideva dicendo che a lui neanche il diavolo lo voleva! Quando mio padre mi aveva messo tra le mani un lungo rastrello dal manico di legno, mi ero tranquillizzato. “Dovrai recuperare tutte le olive cadute intorno agli alberi.” “E chi le ha buttate tutte le olive a terra?” Mio padre mi aveva dato un piccolo buffetto sulle guance “Te le buttano le donne con i bastoni”. E così alle prime luci dell’alba la campagna era tutto un echeggiare di tonfi e battiti, di urla e scalpitii infervorati. Mio padre e mio nonno si alternavano sulla scala, mia madre e le zie battevano colpi furiosi ai rami, i miei cugini più grandi stendevano la rete sotto gli alberi e io mi affannavo a raccogliere i frutti caduti all’esterno con ampie bracciate. Non era stato facile capire come impugnare il rastrello, il manico era troppo lungo per me e la forca di ferro troppo pesante. Ma non avevo mollato e, con la fronte imperlata di sudore, fino a mezzogiorno avevo contribuito a riempire dodici sacchi di tela. “Stasera poi, a casa, mi aiuterai a dividere i rametti dalle foglie” mi aveva sussurrato all’orecchio mio padre con una risatina accompagnata da un’espressione di soddisfazione. Io avevo allora lanciato un’avida occhiata alle mani untuose che mi facevano già assaporare il profumo del liquido prezioso che impregnava le pareti del “trappit”. Immaginavo che di notte il frantoio si riempisse di vapore a porte chiuse dopo la molitura pomeridiana, quando entrandovi l’aroma intenso inebriava le narici. Il rombo scoppiettante del motore del vecchio catorcio guidato con imprudenza da mio nonno mi aveva bruscamente distolto dai ricordi nostalgici in cui mi avvolgevo in quel freddo pomeriggio autunnale. Circondato dalle pareti di pietra secca, dove i pensieri volavano fino al soffitto conico e la luce durante il giorno filtrava a intermittenza dalle chiancharelle sgangherate, mi sentivo un feretro in decomposizione nell’antico monumento funerario miceneo. “E così ti sei nascosto nella casidde” con queste parole mio nonno aveva rotto il silenzio di settimane. Mia madre aveva mandato uno zio e un cugino per provare a convincermi a rientrare al paese, che mi avevano detto: “Perfino nonno Angelo è arrabbiato con te, dice che sei nu ‘mbam.” Quella parola, infame, mi aveva profondamente colpito nell’orgoglio. Era vero, ero fuggito dalle mie responsabilità e non era da me, ma che ne sapevano loro dell’inferno che avevo dentro? Mi sentivo messo alla gogna dalla vita che come un giudice inflessibile faceva prendere a sassate i miei vecchi sogni, un inetto perseguitato dal senso di colpa per non riuscire ad adeguarsi alla realtà … un infame per non voler uscire allo scoperto. Nonno Angelo si scalda le mani emanando calore con la bocca. “Fasce fridde qua dentro, siamo a fine ottobre, ormai” continua poi adagiandosi sulla branda bassa e traballante. “Al paese hanno acceso il riscaldamento, ormai”, poi mi fissa a lungo negli occhi. Lotto contro la tentazione di non riuscire più a sostenere quello sguardo duro, come succedeva da bambino quando mi apprestavo a subire un suo rimprovero severo. “Lucio te ne devi andare da qui.” “Non ho ancora freddo, nonno.” “Non hai capito, te ne devi andare dalla Puglia! Non è più posto per te, questo.” Le sue parole mi trafiggono come il coltellino che portava sempre in tasca durante le nostre passeggiate sotto il sole cocente alla ricerca di more e che usava per tranciare le sterpaglie che impedivano il cammino. Le sento le ferite che si aprono, che bruciano, pungono come le spine di un rovo nelle mie carni. Le ginocchia non reggono, il nodo alla gola comincia a salire, mi soffoca e risale liquefacendosi agli occhi. “Quel dottorato a Tubinga, tu lo devi fare!” e così dicendo si alza bruscamente e mi scrolla per le spalle con vigore. “Devi dire a quei tombaroli ‘mbam di stranieri che ci hanno sempre portato via i reperti più belli, che noi siamo orgogliosi della nostra terra, che noi la amiamo questa terra, anche se siamo costretti a lasciarla…” E solo allora si riaccascia sulla branda, che dal cigolio che emette sembra gemere assieme a noi. Guardandolo stranamente così inerme, tento di riprendere il controllo delle mie emozioni e faccio qualche passo verso di lui. Come ramo di ulivo piegato dal tempo, mi inginocchio davanti a lui e gli accarezzo le mani ruvide, la pelle dura come le zolle là fuori d’estate, e me le porto alle labbra. Sanno di fatica, ma anche di orgoglio, quello che non si spezza. Voleva studiare, nonno Angelo, come me, ma non lo ha potuto fare, la vita non glielo ha permesso. Ma lui la vita non l’ha tradita, l’ha attraversata a testa alta, da amorevole patriarca dal tronco resistente che trae vigore dalle sue radici profonde. “I semi non si piantano solo nel terreno, vengono trasportati anche dal vento, lontano, e fioriscono lo stesso, più forti, dopo il lungo viaggio.” E così adagio il capo tra le sue ginocchia, chiudo gli occhi abbozzando il sorriso di un bambino, e inizio a sognare la mia nuova vita a Tubinga.

Intervista a Romina Tondo, editrice di Letteratura Alternativa

Letteratura Alternativa, realtà editoriale dinamica e innovativa, si distingue per il sostegno continuo agli autori, che coinvolge attivamente i lettori, e per la varietà degli eventi letterari live in sede che registrano sempre il sold-out. Nei prossimi giorni sarà presente per la seconda volta alla più importante rassegna editoriale italiana, il Salone del Libro di Torino, con la consueta voglia di mettersi in gioco e nuovi titoli a catalogo. Leggete cosa ha da dirci di nuovo la sua fondatrice, Romina Tondo. 
Ciao Romina, è un vero piacere per me inaugurare lo spazio del mio nuovo blog letterario dedicato alle interviste con te, che nel 2016 ti sei lanciata in questa nuova ed elettrizzante avventura, quale è la realtà editoriale di Letteratura Alternativa. Mi sembra ovvio chiederti, per cominciare, cosa è cambiato da allora? «È cambiato tutto moltissimo. E in positivo, devo dire. LA edizioni è una realtà tangibile e indipendente, in soli tre anni si è guadagnata un ruolo di apprezzabile rilievo nel biosistema editoriale, conquistandosi una meritata popolarità, nonché una posizione autorevole e credibile. È assiomatico che i suoi punti di forza siano la passione e la voglia di sperimentare, la curiosità, il bisogno di esplorare, di conoscere… Nell’ultimo anno e mezzo ho deciso di stravolgere completamente un profilo editoriale in cui non mi riconoscevo, né come donna e neppure come imprenditrice. Ho vinto l’abulia, la mancanza di entusiasmo e un’immobilità che mi circondava con collaboratori e coadiutori incerti. E sono ripartita, grazie anche e soprattutto a Pablo T, autore affermato, compagno di vita e padre di mia figlia, che mi accompagna in tutte le mie scelte esistenziali e mi sostiene senza incertezze. Da allora, un vento nuovo ci ha permesso una rifioritura dalla quale sono sbocciate nuove idee e progetti importanti. Una scrupolosa gestione del catalogo, con pubblicazioni intriganti e pregevoli per la veste grafica inconfondibile e curata, un’attenzione particolare agli autori esordienti, alla poesia (sempre più snobbata), alle storie per i bambini… Insomma, una realtà editoriale nata per riempire quel “buco nero” culturale che si allarga a macchia d’olio.»
Negli ultimi tre anni Letteratura Alternativa ha raggiunto importanti traguardi, uno fra questi è l’apertura della sede in Via Calosso ad Asti, dagli interni suggestivi in stile Liberty. Nella foto alcuni dei titoli pubblicati in questi anni.
Agli autori esordienti, Letteratura Alternativa propone l’opportunità di pubblicare in crowdfunding, un’opzione che ha preso piede da poco nel panorama culturale nostrano. Perché lo avete scelto e quali sono i vantaggi per pubblico e autori? «Forse, siamo stati tra i primi ad adottare questo sistema di pubblicazione “alternativa” e all’avanguardia. Questo ha permesso a molti autori di pubblicare in maniera completamente gratuita, utilizzando come supporto i propri contatti per promuovere il proprio libro. Ovviamente c’è dietro un lavoro di pianificazione e strategia editoriale, e tutti quei processi propedeutici alla pubblicazione, ovvero grafica, primo e secondo editing, promozione e anche, permettimi di dirlo con un sorriso, un po’ di dottrina psicanalitica. Questo processo permette all’autore esordiente di non arrivare all’auto-pubblicazione, ma di sentirsi supportato comunque da professionisti i quali, raggiunto l’obiettivo, faranno diventare concretezza un piccolo grande sogno nel cassetto e, cosa importante, senza alcun esborso!» Letteratura Alternativa si contraddistingue per la molteplicità delle proposte rivolte non solo al pubblico dei lettori, ma anche a chi intende affinare le proprie inclinazioni alla scrittura. Offre infatti laboratori di scrittura emotiva. In cosa si contraddistinguono, nello specifico? «Letteratura Alternativa si prefigge di poter dare accesso alla scrittura professionale a chiunque mostri un’attitudine, un talento, un’inclinazione alla parola scritta e al lessico in generale. Con i nostri corsi cerchiamo di dare una base e una struttura tecnica e motivazionale partendo dall’emotività e dal nostro io più intimo e nascosto. Abbiamo implementato da pochi mesi anche dei percorsi individuali di Coaching Letterario, personalizzabili e flessibili in appuntamenti virtuali e fisici, in base alle proprie necessità che possono variare da programmi small a programmi extra large. Letteratura Alternativa offre anche la possibilità di farsi affiancare da un ghostwriter che scriverà per i fruitori quel libro che hanno sempre avuto in mente (biografia, autobiografia, romanzo, racconti, memorie, eccetera) da tanto tempo.»
Letteratura Alternativa propone percorsi personalizzati di coaching letterario. Nella foto, lo scrittore Pablo T durante una lezione dei corsi di scrittura emotiva.
Fra le novità proposte di recente presso la sede c’è la Book Room Therapy, un’iniziativa davvero stimolante sul piano della crescita personale per chi crede nel potere dei libri. Come è nato il progetto e come sta rispondendo il pubblico? «Il pubblico ci sorprende sempre piacevolmente e ha apprezzato tantissimo la novità, abbiamo più persone che beneficiano di questa innovativa terapia e che amano decisamente farsi coinvolgere. Ci sono utenti che arrivano anche da altre città per non perdere questa straordinaria opportunità. L’iniziativa si basa su semplici sedute singole e percorsi più approfonditi. I grandi classici la fanno da padrone. Ma ci sono anche variazioni sul tema, concepite in base alle esigenze dell’animo umano. Il progetto nasce in un momento di relax in cui Pablo ed io, passeggiando tra le colline del Monferrato, in un confronto costruttivo e con quel fil rouge che ci contraddistingue, abbiamo sentito l’esigenza di ricreare un’atmosfera quieta e di benessere legata alla lettura, in un ambiente capace di soddisfare mente e corpo nutrendosi appunto di letteratura. E… nel giro di un mese, detto fatto!»
Lo spazio dedicato alla Book Therapy nella prestigiosa sede di Letteratura Alternativa.
Adesso entriamo più nel dettaglio delle proposte editoriali che rivolgete al vostro pubblico di lettori. Tra le nuove collane meritano una citazione speciale quella dedicata al fantasy e ai ragazzi. Puoi accennarci qualcosa su questa scelta e sui titoli di ultima uscita? «Abbiamo inaugurato il laboratorio del fantasy con una narrazione steampunk che ci è piaciuta molto e così abbiamo dato vita a questo nuovo progetto. Anche in questo caso ci siamo fatti prendere dalla voglia di sperimentare. La stessa cosa è accaduta con le storie per i bambini, abbiamo un’autrice in cui crediamo molto e amiamo leggere le sue storie, è bastato questo a convincerci e a conquistarci.» Quest’anno, per la seconda volta, Letteratura Alternativa sarà presente al Salone del Libro di Torino, un importante traguardo raggiunto in breve tempo. Cosa ha rappresentato per voi lo scorso anno questa rassegna e quali sono le aspettative e le nuove proposte con cui vi accingete a parteciparvi? «Lo scorso anno per noi il Salone del Libro è stato un importante punto di partenza, un’altra tessera del puzzle da aggiungere. Un grande insegnamento (perché c’è sempre da imparare), una piccola grande conquista che ha certificato la nostra crescita. Oggi ci affacciamo a questa grande kermesse con una nuova consapevolezza, con ore e ore di lavoro, tanti sacrifici, una grande maturità e qualche soddisfazione. Come sempre non ci aspettiamo nulla, ma cercheremo di cogliere e accogliere ogni istante per arricchire ancor meglio e ancora di più un lavoro che amiamo fare.» Il sito della casa editrice: www.letteraturaalternativa.it La recensione del romanzo “Verrà qualcuno a salvarti” di Pablo T

L’amante di Marguerite Duras

Brutalmente invischiata nell’inesorabile scorrere del tempo, la storia di una vita sedotta dall’incomunicabilità e dall’abbandono

“La storia della mia vita non esiste. Proprio non esiste. Non c’è mai un centro, non c’è un percorso, una linea” È il 1984 quando viene pubblicato L’amante, romanzo breve con il quale Marguerite Duras si aggiudicherà finalmente il Premio Goncourt, a cui seguirà, nel 1992 anche la celebre versione cinematografica firmata Jean-Jacques Annaud.  Sono passati cinquant’anni da quando si svolgono i fatti narrati e la scrittrice francese è ormai lontana dall’attivismo politico della Resistenza e del Comunismo. Non è mai sfuggita, però, al dramma interiore di una infanzia segnata da mancanze economiche e affettive. Negli anni ’80 la Duras ha settant’anni ed è sempre più invischiata nel baratro dell’alcol. “L’acool ha assunto le funzioni a cui Dio è mancato, inclusa quella di uccidermi, di uccidere” Ha accanto Yann, un amante più giovane di lei di quarant’anni che non l’abbandona mai, che scrive per lei sotto dettatura il racconto autobiografico della giovane francese quindicenne a Saigon. Nel 1929  Marguerite, chiamata anche Nenè o Margot o Meg più avanti, viveva nell’Indocina francese, l’attuale Vietnam, dove era nata da padre dirigente scolastico e madre insegnante. Alla morte del padre affronta momenti difficili accanto alla madre, dura e fragile di mente allo stesso tempo, e ai suoi due fratelli, Pierre, il maggiore, manesco e dispotico, sempre amato e protetto dalla madre, e Paulo, più sensibile e cagionevole di salute, che perirà di broncopolmonite, una perdita che, assieme a quella del primo figlio nato morto, addolorerà profondamente Marguerite. “Bisognerebbe avvertire tutti di tali eventi. Comunicare loro che l’immortalità è mortale, che può morire, che è successo, che continua a succedere (…) Che la vita è immortale mentre è vissuta, mentre è in vita. Che l’immortalità non è una questione di tempo, non è una questione di immortalità, è qualcosa di ignoto.” Ha quindici anni e mezzo quando attraversa un braccio del fiume Mekong con indosso “un vestito di seta naturale, lisa, quasi trasparente” e “una cintura di cuoio in vita”. Ai piedi porta “quel famoso paio di di scarpe di lamè dorato, con i tacchi alti” e sul capo “un cappello da uomo con la tesa piatta, un feltro morbido color rosa, con un largo nastro nero”. Le labbra sono dipinte di un rosso ciliegia all’epoca in voga. È l’immagine di una ragazzina che si sorprende nella sua femminilità, che prende coscienza della propria sensualità come l’arma per apparire quello che gli altri vogliono che ella sia. “Questo mancare delle donne a se stesse sempre l’ho sentito come un errore. Non c’è da attirare il desiderio. Il desiderio era in colei che lo provocava o non esisteva. C’era sin dal primo sguardo o non era mai esistito.” Attraversando il fiume, quel giorno, Marguerite non sarà più la stessa. Quel corso d’acqua sarà linea di confine da una infanzia miserevole e piena di contraddizioni nel rapporto di odio-amore verso la madre, a una esistenza segnata dallo scandalo. Diventa la giovane amante di un indolente rampollo di una ricca famiglia cinese di Saigon, che ostacolerà la relazione, fino a pagare una ingente cifra per allontanare la giovane bianca corruttrice che farà ritorno in Francia con la sua famiglia. “Il difficile non è raggiungere qualcosa, è liberarsi dalla condizione in cui si è.”
Nel 1992, il regista Jean-Jacques Annaud ha diretto L’amante, tratto dall’omonimo romanzo della Duras
Complice silenziosa di questa torbida storia è la madre di Marguerite, che osserva il cambiamento nella figlia e tacitamente approva, per poi accusarla di immoralità e riempirla di percosse assieme al figlio maggiore. Oscillando fra l’ostinazione e l’apatia, l’immagine materna che ne deriva è quella di una donna che non smette di aggrapparsi a solide certezze, quali la famiglia e la speranza di costruire una nuova Francia in Indocina, a differenza della figlia che nella sua vita sentirà sempre la mancanza di un centro stabile. La giovane Marguerite conduce il gioco dell’ambiguo legame, avviluppata in uno stato d’animo cupo, quello della disperazione di chi ha vissuto nella consapevolezza di essere stato abbandonato da Dio. Sommersa dalla tristezza che scava nella sua anima una ferita profonda quanto una diga, con il suo indecente comportamento innalza, tuttavia, gli argini di quella libertà fiera e indomita dignità che appartiene alle indoli emancipate e alle menti più acutamente sensibili, che si salvano attraverso il loro stesso scandalo. “Gli dice: vorrei che non mi amassi, e se mi ami, vorrei che facessi come con le altre donne. Lui la guarda, spaventato, domanda: è questo che vuoi? Lei risponde di sì”. Chi è, allora, il primo amante, nel libro soprannominato “l’amante di Cholen”, quartiere angusto della città, di una scrittrice così acclamata in Francia, dal talento riconosciuto anche in Italia da autori come Vittorini e Calvino? È un giovane dalla pelle liscia e morbida, dal fisico poco possente, che non trova il suo posto nel mondo e che investe in un’attrazione impudica e tormentata sullo sfondo della Cina segnata dalla povertà e dal problema razziale. È il simbolo di un amore che incarna le più complesse fragilità umane voluttuose e che travalica distanze fisiche e temporali. “Ma poi glielo aveva detto. Le aveva detto che era come prima, che l’amava ancora, che non avrebbe potuto mai smettere d’amarla, che l’avrebbe amata fino alla morte.” Agli eventi degli anni ’30 in Indocina si alternano lunghe digressioni sulla vita futura parigina della scrittrice, a contatto con intellettuali come Drieu La Rochelle, Brasillach, Ramon Fernandez, e della sorte infelice che toccherà al fratello maggiore e alla madre, con la quale Marguerite non riuscirà più a ricucire i rapporti. E in questo ritornare indietro nel tempo si coglie la dolorosa analisi degli eventi più intimi di una intera vita che hanno creato grandi vuoti dentro cui l’io narrante si sofferma e scava, traendone fuori un magma di confusione e un lacerante e perpetuo appello d’amore. Con la brevità delle frasi e la narrazione asciutta, brutalmente diretta, questo piccolo capolavoro emerge nella sua feroce intensità emotiva, nell’autenticità dei sentimenti difficili che marchiano una giovane esistenza e la conducono verso un rabbioso mal de vivre che trova conforto in un inarrestabile e urgente bisogno di scrivere. “Scrivere era la sola cosa che popolava la mia vita e la rendeva magica. L’ho fatto. La scrittura non mi ha mai abbandonato”.   Fonti Cristina De Stefano “Scandalose. Vite di donne libere” Rizzoli, 2017 pagg. 201-209 Sandra Petrignani “Marguerite” Neri Pozza, 2014