Hetty Hillesum

Leggo spesso dell’importanza di scrivere di sè, di scrivere vere e proprie memorie autobiografiche, mettendosi a nudo per creare unità alla propria esistenza. I coach di scrittura guidano in un percorso che mette in scena una rappresentazione della nostra vita che nasconde altro da quello che “fenomenicamente” appare. La scrittura è dunque uno strumento di travaso di inquietudini, dove noi siamo gli sceneggiatori del copione della nostra esistenza. Mettere nero su bianco diventa un processo “terapeutico” in momenti dolorosi o rivelatori della nostra vita. Nel suo saggio Le storie che curano, lo psicoanalista junghiano James Hillman dichiara:

Le storie che curano di James HillmanOramai sappiamo che la psicoterapia è inutile: raramente i sintomi ne sono guariti, difficilmente i matrimoni salvati, gli impieghi trovati; dipendenze, depressioni, suicidi non sono evitati. I miei colleghi mi rammentano le statistiche secondo cui, per chi ha avuto un trattamento psicologico e per chi è invece stato curato con farmaci o lasciato a se stesso, il risultato è più o meno il medesimo. Nei capitoli di questo testo si fa proprio questo tentativo: si cerca di vedere l’arte narrativa nella psicoterapia e la psicoterapia come un’attività narrativa. La psicoterapia è riuscita a inventare una narrativa che cura“.

Attenzione, ritenere la scrittura autobiografica terapeutica è cosa ben diversa dall’intenderla “una narrativa che cura” in senso hillmaniano. La nostra mente, secondo lo psicoanalista, ha una base poetica nel senso greco del termine di processo creativo.

Il paziente, secondo Hillman, “racconta la sua vita perché la vita è il mezzo per arrivare al racconto.” e lo fa attraverso i miti, perchè ognuno di noi, quotidianamente, mette in scena le sue finzioni (fantasie, convinzioni).

Il lavoro di scrittura su di sè è pertanto un processo di rielaborazione di queste finzioni, perchè la scrittura rappresenta lo strumento per fare un viaggio dentro se stessi. Diventa a questo punto importante capire cosa raccontare della propria vita. Se scriviamo di noi, non dobbiamo necessariamente raccontare tutta la nostra vita, ma quello che accade nel momento in cui sentiamo la necessità di scrivere, quanto ha fatto scaturire l’urgenza, e che ci fa mettere in atto le nostre fantasie.

Nel 1941 nel suo Diario, la giovane ebrea olandese Hetty Hillesum, scrive:

«Se mai scriverò – e chissà poi che cosa?-, mi piacerebbe dipinger poche parole su uno sfondo muto. (…) Più tardi, se sarò sopravvissuta a tutto quanto, scriverò delle piccole storie su questo tempo, e saranno come rade pennellate su un ampio, muto sfondo fatto di Dio, Vita, Morte, Dolore, Eternità».

Hetty Hillesum morirà a soli 29 anni ad Auschwitz, il 17 aprile 1943. Non volle salvarsi dalla deportazione, ma accettare il suo destino di ebrea, per quanto non fosse osservante. Sempre attratta dai temi religiosi, Hetty era animata da una indagine del profondo, dall’ascoltarsi dentro. Tra i suoi autori preferiti, di cui riporta interi passaggi, il poeta Rainer Maria Rilke, il quale scrisse: “Se accade che il mondo si frantusmi sotto i piedi, l’arte – in quanto principio creatore – resiste per sola sua forza ed è ciò che medita possibilità di nuovi mondi e tempi. Per questo l’artista, colui che fa dell’arte la sua concezione di vits, è l’uomo della mente ultima,colui che, giovane, attraversa i secoli senza passato dietro di sè.”

"Un'estrema compassione: Etty Hillesum testimone e vittima del Lager" di Nadia Neri
“Un’estrema compassione: Etty Hillesum testimone e vittima del Lager” di Nadia Neri

Hetty Hillesum, spiega nel suo saggio Un’estrema compassione: Etty Hillesum testimone e vittima del Lager, con le illustrazioni di Claudia Tesini, la psicoanalista Nadia Neri:

“avrebbe voluto fare di queste parole anche il suo stile di vita e il suo punto di arrivo come artista. La storia però l’ha costretta a un compito terribile: essere la cronista del primo sterminio programmato degli ebrei su scala europea.”

La testimonianza scritta che ci ha consegnato Etty Hillesum non è “un travaglio interiore per esprimere sentimenti o problemi personali, ma (…) misurarsi con l’inadeguatezza delle parole, con la difficoltà di esprimere l’orrore dei campi.”

La ragazza cominciò a scrivere il suo diario su consiglio dello psico-chirologo junghiano Julius Spier del quale fu paziente, a seguito di uno stato di depressione.

“Avrei voluto andar via e mettermi a scrivere. Credo di capire anche questo. È un altro modo di “possedere”, di attirare le cose a sé con parole e immagini. L’impulso che mi spingeva a scrivere dev’essere stato soprattutto il desiderio di nascondermi agli altri con tutti i tesori che avevo accumulato, – di annotare ogni cosa e di goderla tenendomela per me. E adesso, improvvisamente, questo atteggiamento che per ora chiamo “possessivo” è cessato.”

Diario, Hetty Hillesum. AdelphiE Hetty Hillesum inizia a scrivere per testimoniare gli spaventosi eventi che accadevano intorno a lei: “Voglio diventare il cronista di tanti fatti di questo tempo.”

Ha narrato la verità, dunque, la parola è stata per lei uno strumento etico di ricerca di una verità, non assoluta, ma del suo tempo. E questa verità si racconta in un religioso silenzio, in un raccoglimento esistenziale, in un ascolto continuo, necessario.

«Tutta l’Europa sta diventando pian piano un unico grande campo di prigionia. Tutta l’Europa finirà per disporre di simili, amare esperienze. Sarà monotono se noi ci riferiremo scambievolmente i fatti nudi e crudi – le famiglie lacerate, le proprietà sottratte, le libertà perdute».

Hetty Hillesum non smetterà mai di scrivere. Assalita dalla stanchezza fisica, spossata dall’orrore circostante, sarà sempre la ragazza con il carboncino in mano che trascrive su pezzi di carta le parole che mai induriranno il suo cuore, ma lo lasceranno, nonostante gli eventi terribili, “un cuore pensante.”