A grandezza naturale di Erri De Luca. Feltrinelli, 2021.
“Negli abissi del disumano, il semplice umano abbaglia come una raffica di un lampo.”
(A grandezza naturale – Erri De Luca)

Che un libro può salvarci, l’ho sempre saputo. È per me una certezza, una delle poche che la vita può darci. Ma proprio perché limitate, queste certezze, di fronte all’immensa e umana indeterminatezza, sono solide.

In giornate in cui resti incurvata per ore su una scrivania, dove si accumulano fogli e le pareti intorno a te si riempiono di trilli e schiamazzi, nei corridoi il calpestio continuo rimbomba come la pesante lancetta di un orologio che preme contro il vetro, fuori c’è il sole, ma a te sembra che la notte non sia mai finita. È in queste giornate che senti di avere bisogno di un amico presente ma silenzioso, che sussurri parole che ti rimettano al tuo posto. Un libro che sappia riportarti a te.

A grandezza naturale di Erri De Luca, edito da Feltrinelli mi ha chiamata. Mi stava aspettando. Sapeva che sarei arrivata da lui quando il cammino si sarebbe fatto difficile, solo perché fuori tutto è perfetto, ma dentro è un rudere aggredito dalla muffa.

E le parole che mi ha porto le ho divorate, non con gli occhi ma con il cuore. Mi si è spalancato, affamato, e si è nutrito. Si è saziato di un piacere antico che torna a scaldare il petto con un calore rassicurante. Non più dietro la finestra, ma dentro, nel profondo.

Le parole giuste, al posto giusto, al momento giusto. Il momento perfetto per ritrovarsi.

Paroliere più che scrittore, sulla musica di un tempo che non ha misura, Erri De Luca trasmette la sua sapienza di studioso dell’ebraico, dell’amore per la parola, che lui traccia sul foglio con perfezione. La cerca, la insegue e la trova, sempre. Come chi cerca l’oro, la setaccia nel fiume di altre parole, e poi la fa splendere.

“Sono rimasto figlio di questo padre morto alla mia età di adesso. Anche se potrò morire più anziano di lui, rimango figlio. Non conosco il gradino profondo della paternità che produce il salto di generazione. Ignoro la sua grandezza naturale.”

E mi sono sentita figlia di un gigante con la penna fra le mani, ignara, ancora una volta, della grandezza di ogni sua parola.

“Si dice che sia il frutto a proteggere l’albero, non viceversa. Perché ci sia questa tutela bisogna che la pianta non sia spoglia, anzi feconda di germogli.”

Perché quello che ho letto ha illuminato la mia anima spenta, l’ha scossa e l’ha fatta vibrare. L’ha fatta librare.

Con eleganza, la parola di Erri De Luca balla sulla punta del cuore e accarezza come un velo di seta. E fra la piroetta di una digressione filosofica e un adagio di poesia, lo spettacolo rapisce e trasporta altrove.

“Marek è pronto per incontrare la faccia di suo padre. Il suo corpo è davanti a lui, mancano i tratti del volto che resistono alla messa a fuoco. Marek continua a vedere una foschia su quella faccia rimasta a mille miglia a oriente di Parigi. In Ebraico, oriente e prima sono lo stesso nome: “Kèdem”. Allora Marek sposta la tela verso oriente, anche se da lì non viene luce. Aspetta che sia sera e illumina a candele il cavalletto.”

E mentre le palpebre chiudevano il sipario di quel palco immacolato, attraversato da segni di parole, il respiro tornava a farsi regolare. Ho chiuso gli occhi su un mio giorno triste per aprirli in un sonno di luce.

Senza sapere dove la storia mi avrebbe condotta, mi sono addormentata nel trionfo di chi sa che sarebbe continuata, la storia e la certezza, che un libro mi ha salvato, ancora una volta.

“Eccomi qua: il solo tempo che possiede, il presente immediato, il giorno stesso.”