Seta di Alessandro Baricco: la storia di chi un po’ assiste alla propria vita da lontano e un po’ si lascia tentare… da lontano

Terminata la lettura di “Seta” ho chiuso il libro e, sdraiata sul letto, ho socchiuso gli occhi immaginando uno scampolo di seta scivolare lungo il mio corpo. Lo vedevo, quel fascio di trama sottilissima e impalpabile cambiare colore, dal grigio diventare bianco, accecare la mente e poi pian piano confondersi con l’ocra chiaro della mia pelle. E allora l’ho avvertita quella sensazione di profonda voluttà colpire le viscere, la vibrazione dell’attimo sospeso nel tempo che ti fa smarrire in un vortice di emozioni a cui difficilmente darai un nome, l’attimo della perdizione che però dà senso per un solo breve e intenso attimo a una vita in attesa di essere vissuta.

Questo è Seta di Alessandro Baricco, un libro piccolo piccolo, che per poche ore regala un turbinio di sensazioni: dall’inquietudine dell’ordine che è la vita del protagonista Hervè Joncour all’inizio della storia, al tumulto che la decisione di coltivare bachi da seta porta nella sua vita e nella piccola città francese di Lavilledieu, dallo stupefacente incanto di suoni e colori del Giappone alla desolazione e prostrazione di quelle terra lontana durante la rivolta sociale, dalla nostalgica malinconia di qualcosa che non c’è stato alla compita rassegnazione di un passato irreversibile, dall’amarezza della perdita della persona amata fino alla scoperta che ciò che si poteva avere è andato perduto per l’abbaglio che ha reso ciechi per tutta la vita.

Una storia dalla trama che fluttua come il volo di un airone al tramonto, che si confonde con il cielo. Il tempo di spiegare le ali e le parole sono già finite. Ma i pensieri restano, come la scia fra i nembi del cielo, e gli interrogativi girano in tondo sulla mente del lettore.

Il breve romanzo trasporta lontano, in quei luoghi conturbanti e ancora del tutto sconosciuti che tanto attirano il pubblico. Baricco scrive Seta nel 1996 quando la passione per il Giappone non è ancora così marcata come ai giorni nostri, quindi anticipa una tendenza per la filosofia zen o l’estetica orientale da cui lo stesso Steve Jobs è stato contagiato, definendola «minimalista e limpida».

La storia è ambientata nella cittadina di Lavilledieu in Francia nel 1861, data che, ricorda l’autore, coincide con la guerra civile che Abramo Lincoln combatte in America e con la stesura di Salambò di Flaubert, due uomini attivi e decisivi per la storia sociale e letteraria del mondo di quegli anni. Di Hervé Joncour invece, l’autore dice che era “uno di quegli uomini che amano assistere alla propria vita ritenendo impropria qualsiasi ambizione a viverla.”

Si tratta di un giovane trentaduenne che si occupa della compravendita di uova di bachi da seta in Africa e in altre nazioni d’Europa. È sposato con Hélène e i due non hanno figli. Quando un’epidemia colpisce i bachi da seta nei Paesi con i quali commercia Joncour, per non mettere a rischio il suo commercio, questi è costretto a intraprendere un lungo e difficile viaggio in Giappone, un’isola «piena di bachi… in cui nessuna malattia arriverà mai», un posto definito «fino alla fine del mondo».

Laggiù l’uomo ci tornerà più volte e per ogni viaggio viene descritto il medesimo percorso, a differenza di un particolare che starà al lettore scoprire, è questa una piccola curiosità sulla quale riflettere. In Giappone Joncour è accolto da un aristocratico, HaraKei, nella cui abitazione incontra una giovane donna dagli occhi che «non avevano un taglio orientale». Fra i due c’è subito un incontro di sguardi e una segreta intesa, nonché vibrante attrazione. Dalla ragazza Joncour riceverà un biglietto che si farà tradurre in Francia da una meretrice di lusso di origine giapponese. In seguito, durante uno dei ritorni nel lontano Oriente, Joncourt troverà solo paure e rovine in Giappone, ma della giovane non c’è traccia, solo un inaspettato ed enigmatico messaggio d’amore. Disorientato rientra in Francia, con il peso addosso di «uno strano dolore […] Morire di nostalgia per qualcosa che non vivrai mai». Un giorno l’uomo riceve una missiva, pare, dal Giappone e ancora una volta, per tradurla ricorrerà alla misteriosa Madame Blanche. È intorno a questa lettera che si dipana un sorprendente mistero della trama.

A cercare una morale della storia ci si può riferire alla sì apparentemente banale constatazione che ciò che tanto cerchiamo nella vita in fondo è a portata di mano, ma bisogna ammettere che si tratta pur sempre di un’incontrovertibile e inconfutabile verità, almeno a coloro ai quali la verità non sfugge come seta fra le dita.

Baricco è uno di quegli autori, si trova spesso scritto da molte parti, che o lo odi o lo ami. Io sono di quelle lettrici dalla posizione meno drastica, che preferisce mantenere aperta l’opzione del dubbio. Di Baricco ho letto anche altri libri e apprezzo la sua capacità di voler giocare con la scrittura. Alla fine della lettura dei suoi romanzi al lettore resta in bocca un retrogusto di sapori misti, dall’agro al dolce, dal salato all’amaro, un sapore insomma spesso indefinibile, ma c’è pur sempre qualcosa di piacevole che ti piace tenere sospeso fra le labbra e lo stomaco. E intanto si apre la gabbia delle emozioni e i pensieri volano liberi, lontano.

Dove andranno, o se si fermeranno mai, non è dato saperlo, così come per la voglia di leggere questo libro che arriverà, forse, fino al lettore.