“In realtà dovremmo imparare ad amare la nostra solitudine, restare a pezzi e sopportarci, accettarci così, esseri incompleti e soli, ma questo gioco è feroce, più violento di quanto si possa umanamente pensare e non esiste vittima, né carnefice, ma solo questo eterno conflitto, di corpi mutilati, presi per darsi, solo in affitto” (Silvia Canonico)

Quante volte abbiamo letto i versi di poetesse lacerate nell’anima da un tarlo che rode incessantemente, quello che molti critici definiscono “male di vivere”? Quante volte abbiamo intravisto stralci di vita tradita in quelle parole drammatiche, con cui donne fragili hanno aperto un varco profondo nella storia, dove noi donne contemporanee non abbiamo voluto guardare, perché noi magari una vita decente l’abbiamo voluta costruire, con le nostre scelte ponderate?

Con le nostre certezze avanziamo decise in una realtà preconfezionata e non ci tange la storia di chi si accascia dentro sé stessa e rimane sospesa in una dimensione ambivalente.

Essere sé stessi o non esserlo, questo il dilemma delle anime sensibili, dotate di un’acutezza olfattiva per le delusioni in agguato, di un udito affinato da anni di rumori molesti che pungono addosso come ingiuste percosse.

La vita a volte non è clemente con tutti, quindi come reagisce chi crede di non potercela fare in un mondo inadeguato alle proprie aspettative, quando nessuno osa più fidarsi nel momento in cui si avanza a tentoni nel fango e gli altri vedono solo sudiciume? La vita a volte ci porge una mano e quell’appiglio spesso si chiama scrittura.

Così nel suo libro “La Musa di me stessa” edito da La Signoria, Silvia Canonico, indomita poetessa degli eccessi, apre il suo infernale teatrino interiore “come un sipario che non sa se rivelare gli atti osceni di questa tragedia comica infinita che io son solita chiamare vita“. E allora scopriamo che “Niente è peggio di quel che sembra, niente, tutto può solo migliorare, nella testa piena di mostri e tempesta, pure queste parole, se lasciate da sole sembrerebbero noiose, ma io sparo disperazione e per chi legge, per chi mi ama e chi mi odia, non ho compassione, solo rabbia oppure devozione“.

Tra le pagine si alternano, in una confessione sincera, una parte in prosa dalla scrittura istintiva, automatica, che trascina il lettore in una spirale di delirio, a versi poetici che raggiungono apici lirici, una parvenza di pace interiore che sembra indicare la strada a un’anima confusa nel mondo, dove “Il contatto con la realtà era solo sfregamento occasionale, un incrocio sempre più sporadico e privo di contatto umano”.

Attanagliata nel suo tormento interiore, la voce narrante si muove come un tassello fuori posto dal mosaico dell’ordinarietà, che stona in quella facciata di perfezione che è l’illusione di un’esistenza che gli spettatori passivi sentono di poter controllare. “Non mi interessa essere diversa, è già tanto riuscire ad essere me stessa, non ho un vero motivo per vivere, tanto meno uno valido per morire, ho passato il limite, sono andata oltre e adesso mi trovo “oltre” e qui ci si sente soli”.

“La musa di me stessa” è un libro di quelli che, vedendolo, si pensa possa esser letto nel giro di poche ore con ingordigia. Niente di più sbagliato. Inghiottito dai flussi di un mare nero, annaspando fra le onde di angosce e tormento, il lettore dovrà concedersi lunghe pause per riprender fiato e capire che la disperazione non si può ingollare repentinamente. La disperazione serra, soffoca, trascina con sé, se si è veramente in grado di sentirla, o meglio, se ci si prova almeno un po’. Quando non ci appartiene è difficile avvicinarsi e dirle: “ti capisco, ma … “. Alla disperazione si deve solo sfiorare le mani, parlare con le carezze, quelle che sanno dire più di mille parole.

Se alla vita togli i fili, questa penzola in una zona oscura, inesplorata che fa spavento e allora si parla di pazzia. Ma tutta quella rabbia, quell’urlare al mondo col linguaggio di graffi autoinflitti all’anima, di morsi all’aria inconsistente di un vivere senza senso, di buchi al cuore e ferite sulla lingua, vuole solo essere ascoltata, ma alle orecchie del mondo parla un linguaggio indecifrabile, dai suoni e dai segni inconcepibili, e allora li si definisce sbagli. Le orme di questi orrori brancolano nel buio e quei corpi senza voce si rintanano in ghetti maleodoranti, nutrendosi delle proprie colpe, fino a riconoscersi nelle loro ombre, inconsistenti e ignote.

Se solo potessero vedere la scia luminosa che lascia il loro passaggio, se solo rovesciassero lo specchio che l’umanità disincantata porge loro, allora sentirebbero che le note che fuoriescono dalla gabbia spalancata del cuore assomigliano a quelle di un usignolo in volo libero verso la vita, la loro. Ed è quella vita che inseguono, in ogni istante, a volte senza rendersene conto, amandola, famelicamente, come nessun altro, forse, è in grado di fare.

E Silvia Canonico lo sa, che la vita le appartiene, e lei vuole afferrarla con forza, anche a costo di non equipararsi a coloro che tentano di curarle l’anima a colpi sordi sul cuore. E muore e risorge ogni giorno, senza conoscere fino in fondo quanta fierezza si cela in questo mettersi a nudo davanti al mondo.

“Se bastasse sorridere con le labbra

sarei salva

ma si sorride con gli occhi

col cuore

e i miei

non son bravi a mentire”